Haydn: perché i compositori italiani contemporanei non rischiano?

Abbiamo assistito ad una buona esecuzione della Sinfonia 95 di Haydn, da parte dell’omonima orchestra regionale, lo scorso martedì 28 febbraio all’Auditorium di via Dante a Bolzano. Un lavoro orchestrale che è incluso nelle cosiddette sinfonie londinesi del musicista tedesco e che sicuramente rientra anche nei lavori Sturm und Drang, ossia quei lavori del periodo classico che anticipano i caratteri tempestosi e dark che saranno poi la moda per quasi tutto l’Ottocento. Ma, di fatto, la Sinfonia 95 non è proprio morbosamente Tempesta e impeto, ma alterna passione, razionalità e anche un po’ di galanteria. Un primo tempo bello tirato, e l’interpretazione del bravo e giovane direttore Daniele Giorgi non nega agli orchestrali il piacere di esagerare un pochino sull’espressività, soprattutto sui contrasti dinamici e sul carattere ritmico martellante e burrascoso. Il secondo tempo vede invece un’ottima esecuzione del solo di violoncello da parte di Luca Pasqual, un canto magico e sensuale, un momento lirico davvero trascinante. Andando invece verso il finale, la sinfonia perde la sua forza aggressiva e scivola nel più banale carattere solare. Anche qui comunque l’Orchestra Haydn e Giorgi non si tirano indietro e fanno di questa luce un punto di svolta.
Si passa quindi ad una prima assoluta, voluta e commissionata proprio dalla Haydn e dal suo direttore artistico Gustav Kuhn, Fons di Alessandro Solbiati, per pianoforte e orchestra. L’opera si presenta molto bene, dipingendo un’atmosfera tesissima, in punta di piedi, formicolante, fatta di mille piccole cose impazzite che sembrano materialmente vibrare nell’aria. Un inizio perfetto, che cattura, che fa ben sperare. Da questo incanto si passa però a gesti drammatici che inducono a seguire quei suoni come volessero raccontare qualcosa. Ecco che tutto torna indietro nel tempo, e il pezzo assume le sembianze di un pezzo degli anni Settanta. Movimenti convulsi, dissonanze, un po’ di terrore, un po’ di colpi di qua, un po’ di colpi di là, contrasti accentuati e il gioco è fatto. Quando poi la solista Emanuela Piemonti, moglie di Solbiati, appoggia sulle corde del pianoforte dei sacchetti di sabbia, risulta ancor più evidente la stanchezza di idee, la pigrizia. John Cage torturava i pianoforti per esaltarne il lato percussivo e antiromantico, per mettere sullo stesso piano suoni e rumori. Qui invece serve solo a rendere un effetto di frustrazione, di soffocamento: tipica ideologia compositiva dell’Europa occidentale degli anni Settanta. Ok, ammettiamo pure che si tratta di una composizione scritta benissimo, orchestrata bene e di buon gusto, ma di fatto delude sul piano della sorpresa e non vorremmo mai datarla nell’anno 2012.
Perché i compositori italiani contemporanei non rischiano? Perché cercano sempre di esser bravi, come se volessero dimostrare a loro stessi e agli altri qualcosa di cui vanno fieri? Perché non sanno più stupire, scandalizzare, scioccare, emozionare?
Nel secondo tempo ascoltiamo una buona interpretazione del Gran Duo di Franz Schubert, proposto per orchestra nella versione ottocentesca di Joseph Joachim. Un pezzo che riecheggia di pianoforte, ma che sa suggestionare proprio per la sua potenza orchestrale.