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February 11, 2012
Cechov-Magelli-Cocco: tre personaggi nel giardino dei ciliegi!
Jimmy Milanese
Il suo teatro è fatto di umorismo amaro, proprio d’un positivista che ride o sorride del grottesco spettacolo di piccoli uomini. Nasce dal desiderio di trasportare sulle scene alcune novelle, scritte per i giornali di San Pietroburgo e Mosca, in cambio di stoffe, pantaloni, vodka e legna da ardere.
La sua carriera poteva concludersi quella notte del 1896 al Teatro Aleksandrinkij di Pietroburgo, quando la prima del Gabbiano registrò un fiasco clamoroso: amorfo, privo di ritmo e slegato, venne criticato al punto che Cechov scappò dalla sala e rimase ore ed ore sulla Neva ghiacciata ad interrogarsi su quel fallimento.
Ritornato a scrivere novelle, abbandonata ogni velleità come scrittore drammatico, quel testo nel quale nessuno aveva scorto un potenziale innovativo capitò nelle mani di Stanislavskij e Dancenko.
Il Teatro d’Arte di Mosca consegnò alla storia il genio innovativo di Cechov, adottando il gabbiano come insegna. Da quel momento, il novellista che scriveva in cambio di quattro stracci, portò in scena “Zio Vanja”, “Le tre sorelle” e “Il giardino dei ciliegi”.
L’ultima delle sue opere è a Bolzano, nell’allestimento curato da Paolo Magelli, sicuramente distante dal clima crudele e immobilizzato dal gelo invernale di una Mosca d’inizio novecento. Il contenuto introspettivo che Cechov aveva pensato per i suoi personaggi, costretti a lunghe pause riflessive, Magelli lo sostituisce con una serie interminabile di corse su e giù per il palco. Corse che graffiano l’oziosa indifferenza, il raccoglimento simbolico di personaggi grigi e stanchi e in preda al proprio affanno. Sono personaggi che non comunicano tra di loro, piuttosto, nei loro ossessivi monologhi ripetono un’idea fissa, un’aspirazione irrealizzabile o una sconfitta. Il mondo che appartiene loro è fatto di creature abuliche e dalle sembianze disfatte. Magelli destruttura questo quadro narrativo, avvicinando i personaggi, che ora si guardano e si scrutano. Egli restituisce quel vuoto prezioso del te(a)tro cechoviano nella scelta di un impianto scenografico minimale. Il nulla non è nelle pause narrative, negli interstizi dilatati tra una battuta e l’altra, ma nel teatro stesso, che rivela il suo retropalco, le sue uscite di sicurezza, le funi che lo cavalcano, i cavi che lo dirigono e tutto quello che di solito viene accuratamente nascosto allo spettatore.
In questo esercizio di modernizzazione, la famiglia allargata a 15 persone che va e viene intorno a quel giardino messo all’incanto – perfetta metafora del declino della società russa, allora, contemporanea, adesso – scompare, abbandonando sul palco il vecchio servo Firs. Colui che malediceva l’anno dell’emancipazione dei servi della gleba, colui che era nato servo nell’animo prima che diventarlo nella vita, s’accascia al suolo di un palco sgombro, mentre una voce fuori campo chiarisce la sua ultima preoccupazione prima di morire: che il signor Gàev si sia messo la pelliccia perché fa freddo. Immenso questo finale. Come si diceva una volta, vale il prezzo dell’intero biglietto.
Su quel palco, personaggio minore nell’economia narrativa, ma capace di emergere (su tutti) all’interno di una compagnia composta da eccellenti professionisti, troviamo un giovane talento del teatro italiano: Valeria Cocco nella vita, Sarlotta Ivanova, la governante, nella commedia, gentile nel concederci qualche riflessione sull’opera, sul suo personaggio e sulla figura dell’attore.
Valeria usa la metafora della breve vita del fiore del ciliegio per spiegare la scelta di questi movimenti continui e repentini sul palco. E’ un fiore che fiorisce e vive soli 45 secondi, per poi appassire. Ciò riflette la condizione dei personaggi cechoviani, che non hanno il tempo soggettivo per vivere il loro dramma. Sul palco, spiega Valeria, la sensazione è quella di essere usati, sfruttati fino in fondo, in un vortice che distrugge tutto, anche la bellezza. Corriamo, saltiamo e in questo modo riempiamo le voragini che ci hanno inghiottito. In questa provocazione narrativa si legge meglio il senso di un allestimento dissonante rispetto a quanto siamo stati abituati. L’impossibilità di non vivere la bellezza, aggiunge Valeria, si allarga alla vita del teatrante, in una società avara di riconoscimenti per questo specifico settore. Una lettura cruda, quindi, dove il teatro e quel giardino dei ciliegi sono spogli e ogni sera sono spogli in un teatro diverso, di fronte a un pubblico diverso.
Nella nostra breve ma intensa conversazione, Valeria Cocco fornisce una visione originale sul senso di quella famiglia costretta ad abbandonare il luogo dei ricordi. In una casa assalita dal fuoco, quando il tetto crolla e tutto sembra perduto, evaporati i fumi che tutto hanno distrutto, puoi vedere il cielo; l’infinito riciclarsi della vita che non cessa mai di fornire un’ulteriore opportunità. Se per Cechov il finale era tragico, come la sua dolorosa esistenza, Valeria, in quella fine ci vede l’inizio di qualcosa di diverso.
Notevole questa ragazza, sia sul palco, incisiva e determinata, sia nelle profonde riflessioni concesse a uno sconosciuto, seduta nel comodo foyer del Teatro Stabile di Bolzano. In un momento storico in cui i giovani vengono condannati da frasi infelici che evidenziano il disprezzo di una società adulta verso un mondo che semplicemente fatica a comprendere, Valeria distoglie lo sguardo da quelle macerie e guarda oltre, più in là, con garbato ottimismo.
In questa commedia sono un’artista incompresa, chiarisce Valeria, e questa condizione la rivivo in scena tutte le sere. I giochi di prestigio e le mie evoluzioni sul palco sono il tentativo d’una semplice governante di essere notata da qualcuno. E’ la condizione naturale dell’attore teatrale, che passa notti insonni quando non è soddisfatto del suo lavoro e s’imbarazza di fronte a un complimento. Una professione che la sera Valeria porta nel suo letto e dalla quale viene svegliata al mattino.
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