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February 6, 2012

Sandro Ottoni: Immaginare e ricordare (a Bolzano)

Reinhard Christanell

Mercoledì 8 febbraio alle 20.30, presso la Biblioteca Ortles (piazzetta A. Frank)  Sandro Ottoni leggerà alcuni brani dal suo nuovo libro “Undici traslochi”. Riproponiamo per l’occasione l’intervista all’autore.

Di Sandro Ottoni, autore di diversi libri aventi per soggetto Bolzano e la sua gente (da ricordare, tra gli altri, Acciaierie e Semirurali) è appena uscito il romanzo Undici traslochi – Vita di Gemma, un seducente, a tratti melanconico viaggio (a ritroso – ma non solo) attraverso i ricordi e, anche, l’immaginazione dello scrittore bolzanino e del personaggio principale ovvero complice indispensabile del suo racconto, la signora Gemma, originaria di un paesino gardesano e trapiantata a Bolzano negli anni turbolenti del fascismo.

Con Ottoni abbiamo parlato della città in cui viviamo, delle radici della sua gente, del suo passato ma anche del suo futuro.

In quasi tutti i tuoi testi ti sei occupato di Bolzano, o, per essere più precisi, di una determinata parte o storia di Bolzano. Anche i titoli dei libri, “strappati” all’immaginario alquanto frastagliato ma comunque collettivo della locale comunità italiana, non lasciano dubbi: Acciaierie, Semirurali eccetera sono termini che parlano da sé. Sei d’accordo?

Sì, ma per me non si tratta tanto o solo dell’immaginario della città, quanto del mio personale immaginare e ricordare. Nella prima parte della mia vita ho vissuto a Bolzano: la mia formazione scolastica, l’infanzia e la prima giovinezza, sono intrecciate di strade e facce e nomi di questo luogo. Poi, a metà degli anni Settanta, sono andato a studiare e vivere altrove, per tornare solo dopo molti anni. Così ho trovato una città cambiata, diversa e spaesante, nel senso anche di una cittadina che era diventata sempre meno paese, meno country, e sempre più provincia qualunque italiana o austriaca – mediamente piccolo-borghese. Mi riferisco all’urbanistica e agli stili di consumo. Ricordare e confrontare con il presente, ritrovare i ricordi anche con l’aiuto di testimonianze, è prima di tutto una mia esigenza. Non ho in mente nessuna epica territoriale, italiana o bolzanina o di quartiere che sia.

Questo nuovo lavoro può dunque essere letto e interpretato come il tassello di un mosaico più ampio al quale negli anni prossimi ne seguiranno degli altri?

Credo di no. Ho altri progetti di scrittura più narrativi e meno “storici” e spero di potermici dedicare.

La storia che racconti, ovvero la vita di una donna dagli anni quaranta in poi, ci permette di seguire l’evoluzione di una città nel corso dei decenni. Cosa pensi dell’occupazione del territorio sudtirolese attuata dal regime fascista? Pensi che per le famiglie trapiantate quassù sia stato un progresso o uno sradicamento dalla loro realtà precedente?

Nel libro è raccontata anche l’infanzia di quest’anziana donna, Gemma. Prima del suo arrivo a Bolzano ci sono stati dieci anni di vita al Lago di Garda, nell’Italia rurale e fascista. Ho cercato di descriverli con molti dettagli anche per sottolineare il contrasto fra un’esistenza miserrima nella campagna e le promesse di cambiamento che venivano dalla città. Cambiamenti, certo ci furono, ma molti e molti anni dopo, e non per tutti, e con un costo enorme in sofferenze e vite. Morire di stenti in campagna o andare a essere bombardati e affamati in città? Questa è stata l’alternativa reale che si è proposta a quella generazione.

L’industrializzazione accelerata fu voluta dal fascismo e da chi lo sostenne per realizzare una politica di potenza e il suo costo, da noi come altrove in Europa, è stata la guerra mondiale.

L’occupazione del territorio condotta con i metodi repressivi e violenti della dittatura, è stata un’evidente ingiustizia. Gli italiani, contadini e operai, che servirono da massa di manovra per quell’occupazione, arrivarono qua indottrinati da una propaganda ingannevole anche rispetto alle reali condizioni della popolazione sudtirolese, ma pagarono duramente il prezzo dell’avere creduto alle menzogne del regime.

Come pensi sia cambiata, se è cambiata, la Bolzano italiana, insomma la Bolzano degli immigrati veneti, calabresi eccetera? Che rapporto hanno costruito, a tuo avviso, queste persone, queste famiglie, con il territorio sudtirolese e, prima ancora, cittadino? Hanno per così dire perso o invece spostato le loro radici? E le nuove generazioni? Sono diventati Bolzanini a tutti gli effetti, i ragazzi nati qua a partire dagli anni cinquanta?

Mi pare che le radici regionali delle diverse provenienze italiane siano oggi in buona parte recise, anche nella mia esperienza personale. Il rapporto con i “parenti del paese” o con la parentela in generale è diventato sempre più formale, meno diretto e sostanziale che un tempo, ma credo sia un effetto che è visibile in tutta la società moderna e che deriva dall’inurbamento. Questo taglio c’è stato anche con il dialetto, a favore dell’italiano standard nazionale. In generale, dagli anni 60, c’è stata una rottura netta con il passato, che ha affermato un nuovo modello economico e sociale, e cancellato, assieme alle radici territoriali, un intero mondo di pratiche, valori, obiettivi di vita; tanto che non so se al presente ha ancora un senso parlare di “radici”. In un mondo rurale, legato alla coltivazione e alle proprietà terriere, forse “radici” aveva dei riferimenti di esperienza, ma nelle città e nelle metropoli mi sembra che gli individui siano molto più mobili, e che le “radici” siano diventate qualcosa di più esile e aereo.

È a causa di quello sradicamento – che ha coinvolto tutti i paesi industrializzati – che, chi ha meno di trenta/quarant’anni, in una storia come quella raccontata da Gemma, non trova quasi più niente di intimo, di presente alla sua memoria. Né il paesaggio urbano, né la vita quotidiana. Dalla misura dei suoi ottant’anni Gemma, infatti, ci racconta di periferie che non ci sono più, di un tempo di povertà e di patimenti, di quando per mangiare si andava a raccogliere le mele rimaste a terra nei campi e per scaldarsi si andava all’Isarco a fare legna, legati con corde per trascinare a riva i tronchi portati dal fiume. Poi dei bombardamenti e delle tragedie della guerra. Poi gli anni del dopoguerra, quando molti nuovi immigrati italiani a Bolzano vivevano in case affollate in subaffitto o in sistemazioni malsane, e si veniva sfrattati in un batter d’occhio… Ma anche di anni in cui le fidanzate si corteggiavano con le orchestrine sotto le finestre, o “andare alla Fiera” era un evento che coinvolgeva tutta la città. Insomma racconti di una realtà che è profondamente mutata.

Guardando gli esiti di questa trasformazione negli ultimi anni, non mi pare però che gli italiani di questo territorio abbiano legato specialmente tra di loro, che vi sia stato un ancoramento specifico. Mi sembrano in realtà italiani abbastanza medi, nella media nazionale, con molti differenti interessi, politici, culturali, eccetera. Poi, chiaramente, per quelli che qui sono da più tempo, ci sono certi “imprintig”. Ci sono paesaggi comuni, strade e case condivise, vicende vissute collettivamente, persone e personaggi che molti ricordano, ecc. Oppure anche il fatto che molti italiani di questa provincia amino le montagne e i boschi: non è una cosa scontata per i tanti che sono venuti dal sud, dalla pianura, è un “valore aggiunto”, che hanno imparato e trasmesso a figli e nipoti. Pure nei piaceri della cucina e del bere, molti italiani hanno felicemente accolto le specialità locali, e anche reciprocamente nella cucina sudtirolese un certo scambio c’è stato. Ma sono piccole cose, tratti di costume, contaminazioni spesso inconsapevoli, ben poco per fondare identità di gruppo o magari convivenze. Non penso che questi elementi siano sufficienti per parlare di comunità o di radici. Lo sviluppo di una cultura territoriale, per come le conosciamo, avviene attraverso processi storici molto più lunghi e non basta un paio di generazioni per costituire nuove comunità.

Se guardo ai giovani (italiani, ma forse non solo loro), non li trovo poi molto interessati a questo tipo di identificazioni, mi pare che le loro mete e modelli siano piuttosto lontani dalle questioni territoriali.

Cos’è, per te, un Bolzanino? Come lo descriveresti?

Non so se esiste veramente il “Bolzanino”, mi sembra ancora un’etichetta abbastanza vuota. Se cerchiamo una descrizione esterna, nella penisola, tra gli italiani, ci immaginano tutti bilingui e siamo considerati “mezzi tedeschi” nel senso anche degli stereotipi che si applicano al “tedesco”. Ma allo stesso modo, anche a nord, fra i tedeschi, credo ci siano analoghi pregiudizi verso i sudtirolesi.

Poi, se guardo dall’interno, tra gli italiani che conosco qui, trovo un po’ di tutto. Bisognerebbe distinguere per età, oltre che per nascita, poi per anni di immigrazione. Ci sono anche molti italiani di immigrazione successiva alla prima “ondata”, che hanno storie diverse da raccontare. Ci sono varie articolazioni dell’essere residenti a Bolzano, e non me la sento di generalizzare. Più che attardarsi a difendere o inventare delle identità ‘etniche’ o locali, si tratta semmai oggi di preoccuparsi per le generazioni che verranno, di aiutarle invece a concepirsi in termini europei e globali, come partecipi di un mondo in cui le frontiere siano in via di superamento.

La donna della quale racconti la storia attraverso i numerosi cambi di abitazione non ha avuto una vita semplice. È una storia “vera”? Puoi dire a chi “appartiene” e in che modo ti coinvolga direttamente?

Sì, lo scrivo nella prefazione del libro che Gemma è mia madre e quindi molti racconti riguardano anche la mia famiglia, i parenti e il loro tessuto di relazioni. È una storia vera, per quanto può essere vera ogni qualsiasi testimonianza. Si tratta di ricordi narrati da una persona, attraverso l’infanzia, la scuola, le case, il lavoro, il matrimonio, gli eventi collettivi e quelli individuali. Poi è noto che nel ricordare ci sono sempre limiti, omissioni, estrapolazioni; quasi tutti i fatti storici narrati nel testo sono però verificabili nelle cronache o nei libri.

Che significato ha per te la corsa a ritroso verso le proprie radici culturali? Ti ha aiutato o, al contrario, evidenziato una sostanziale fragilità e schizofrenia?

Scrivendo non cerco delle radici culturali e ricordare, per me, ha più a che fare con la lentezza che con la corsa. La memoria, specialmente se filtrata attraverso la letteratura, mi interessa come confronto e restituzione di esperienza, non come modello o come nostalgia. Penso che la conoscenza critica del passato e dei suoi errori siano strumenti necessari a evitare di ripeterli: errori come credere nell’Uomo Dei Miracoli, tanto per fare un esempio (purtroppo ricorrente) di fragilità e schizofrenia collettive.

Poi niente vieta di ritrovare anche nell’ieri e nell’altro ieri qualcosa di perduto e di positivo, individuale o collettivo che fosse.

Come ti immagini la Bolzano del 2020? Riconosci nella nuova immigrazione aspetti simili a quelli degli anni trenta?

Ottimisticamente, vorrei immaginare una Bolzano futura multietnica, plurilinguistica, capace delle ragioni degli altri e consapevole del fatto che l’alternativa alla convivenza è il conflitto, come già Alexander Langer aveva notato. Ho lavorato e vissuto in Jugoslavia durante il periodo delle guerre inter-etniche ed ho visto bene come i rancori covati a lungo, in una situazione di crisi, possono essere utilizzati dalle cricche di potere.

Mi sembra che anche qui, sebbene altre condizioni siano molto diverse, ancora molti italiani e tedeschi, specialmente fra gli anziani, si portino dietro risentimenti che risalgono ai tempi della guerra e prima. E anche i giovani, che spesso non sanno delle ragioni e dei torti del passato, si portano dietro sentimenti di ostilità pregiudiziali che assimilano dai genitori o dai nonni.

Si può intervenire su questi rancori? Penso, banalmente, che se ci conoscessimo meglio, italiani o tedeschi, ma anche nuovi immigrati, gli uni la storia e la cultura degli altri, ci capiremmo anche un po’ meglio. Anche in questo senso – e nei limiti dello strumento culturale – mi pare che la letteratura abbia un ruolo importante da giocare. Perciò ben vengano tutti i tentativi di dare a questo territorio una pluralità di voci e storie. Spero che i nuovi immigrati a Bolzano, oltre al contributo di lavoro e ricchezza che portano a questa città, riescano a trovare sempre più situazioni d’incontro e di contatto con i “vecchi immigrati” e con tutta la popolazione. Certo gli “stranieri” rivivono oggi, rispetto alla casa o al lavoro, molte esperienze simili e a volte purtroppo identiche a quelle dei nostri nonni e genitori italiani. Rispetto all’abitare o allo sfruttamento sul lavoro, ad esempio, nel libro di Gemma, si racconta di famiglie che lavoravano in casa a sfilacciare lastre di amianto: è qualcosa che si può paragonare alle condizioni schiavistiche di certi immigrati, come denuncia la cronaca. Così pure il sovraffollamento nelle abitazioni. Questa somiglianza di esperienze, dovrebbe riuscire a migliorare la nostra capacità di accoglienza, a renderci più ricettivi in tutti sensi. Immagino che ci sarà molto da fare in questa direzione nei prossimi anni.

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