Music

February 3, 2012

Le atmosfere stranianti della Kerer rese bene dalla Haydn

Emanuele Zottino

Una prima assoluta della giovane compositrice brissinese Manuela Kerer ha aperto lo scorso concerto di martedì 31 gennaio dell’Orchestra Haydn, appuntamento che ha visto sul podio l’ancor più giovane direttore Daniele Rustioni e come solista il celebre violinista Sergej Krylov.

“Kylos tis Krisis”, ovvero “Ciclo di una crisi”. Questo il titolo del lavoro per orchestra firmato dalla Kerer, un lavoro sul concetto di crisi appunto, e sul suo manifestarsi nelle diverse fasi: prosperità, recessione, depressione, ripresa. Crisi che può essere politica, sociale, economica o altro ancora. La compositrice è partita dal fatto che ormai tale parola è sulla bocca di tutti, e come ogni cosa logora, rischia paradossalmente di perdere di senso. Il brano orchestrale vuole essere una sorta di presa di coscienza attraverso i suoni del naturale manifestarsi di una crisi. Ecco che l’atmosfera che governa il pezzo è fatta di mistero, inquietudini, piccoli sfoghi di masse sonore dirompenti, incisi grotteschi e anche ironici. Lo sfilacciamento, il carattere sfibrato sembra essere la regola e non l’eccezione, e questo nega all’ascoltatore la certezza dei gesti chiari, del senso che si ricava dalle forme omogenee. L’effetto è piuttosto straniante, sembra di trovarsi davanti a qualcosa di torbido e vagamente malato.

Parlando invece del linguaggio, è vero che quello mostrato in questa composizione può suscitare qualche piccolo shock tra chi non ha confidenza con la musica degli ultimi cent’anni, ma è altrettanto vero che “Kylos tis Krisis” non nega la tradizione, non si pone come obiettivo la rivoluzione del linguaggio orchestrale, insomma non provoca nessuna crisi di panico tra gli affezionati del repertorio classico. Tutte le strade, ovviamente, sono legittime e feconde. Basta solo non etichettare come sperimentale ogni cosa che ci appare lontana dal repertorio tradizionale. Il pezzo della Kerer, che non è sperimentale, ha invece il pregio di dipingere l’atmosfera giusta, di suggestionare per immagini, di tradurre intelligentemente in suoni un concetto come il “ciclo di una crisi”.

Entrando invece nel concerto per violino e orchestra n.2 di Prokof’ev, abbiamo avuto la sensazione di trovarci di fronte ad un grande affabulatore, tale Sergej Krylov. Il violinista ha in mano la situazione e ci porta dove vuole lui. Avventurose peripezie nei pezzi più virtuosistici, melodie incantevoli e da sogno quando si aprono spazi di intimità, violenza neoclassica per quanto riguarda la forma nel complesso. Insomma un Porkof’ev di tutto rispetto, estroverso, brillante. Tecnicamente, la purezza del timbro e la scioltezza di tutti i passaggi impegnativi caratterizzano lo stile interpretativo del musicista russo. Approccio più che confermato anche nei due bis, paganiniani e del tutto improntati sull’effetto, sullo show, sulla magia, sull’arte appunto di affabulare.

Il secondo tempo ha un compito difficilissimo, quello di stemperare i toni e creare quella necessaria freddezza e quel distacco di cui ha bisogno Stravinsky in generale, e quello neoclassico in particolare. Stiamo parlando dell’esecuzione della “Sinfonia in do”, la cui interepretazione è riuscita solo in parte. Ma, si sa, una delle cose più difficili da chiedere ad una orchestra, è quella di non divertirsi, di non interpretare con i sentimenti, di non esagerare con l’espressività. Sono proprio queste negazioni, frustranti solo in apparenza, il presupposto per ottenere le chiavi di casa Stravinsky. L’aveva mostrato lui stesso nelle tanto biasimate interpretazioni come direttore delle sue stesse musiche.

 

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