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February 2, 2012

A.C.A.B. peccato per la trama, il titolo era simpatico

El_Pinta

Reduce dai successi ottenuti con Romanzo Criminale, la serie, Stefano Sollima approda al cinema con A.C.A.B.,  adattamento dell’omonima “opera letteraria” del giornalista di Repubblica Carlo Bonini. Paghiamo subito dazio alla chiarezza e ribadiamo, se ce ne fosse il bisogno, che l’acronimo A.C.A.B. significa “all cops are bastards” (tutti gli sbirri sono bastardi) ed è stato reso celebre dal ritornello dell’omonima canzone dei 4skins, band Oi! inglese attiva tra il 1979 e il 1984.

Se Romanzo Criminale, la serie, a dispetto di critiche più o meno giustificate (il dibattito è aperto), resta ancora un ottimo prodotto televisivo e un progetto artistico in grado di restituire – tra luci e ombre, sottigliezze e ambiguità – la complessità di un periodo difficile della storia del nostro Paese, questo A.C.A.B. deraglia tristemente, lasciando ben poco allo spettatore al termine della visione.

Rispetto all’epopea tragica di “quei papponi mezzi fasci sempre a rota de cocco“, l’esordio cinematografico di Sollima soffre di quella sindrome ombelicale che attanaglia il cinema italiano da qualche anno a questa parte (al netto delle proverbiali eccezioni che confermano la regola), ovvero tutto deve essere ricondotto a una dimensione intima, familiare e minimale, rassicurante. Ecco dunque che gli sbirri sono bastardi e violenti perché uno (Giallini) non sa più parlare al figlio sedicenne e skinhead, l’altro (Nigro) perché ha problemi con quella “zoccola cubana” della moglie, il terzo (Favino) è bastardo e violento perché…perché…il perché Cobra (il personaggio interpretato da Favino) sia così incazzato in fondo non lo si capisce mica tanto bene, sarà perché è fascio (sic.) o perché sotto casa sua i negri fanno casino la sera, fatto stà che anche lui è un gran bastardo, ma bastardo bastardo bastardo eh. Cattivo come la gramigna…

Si ha un bel da fare a provare a spacciare questo film come una riflessione sulle “frange oscure della violenza, viscerale e virale“, ma quello che manca qui, e la mancanza stride, è qualsiasi tentativo di riflettere sulla brutalità poliziesca come strumento di controllo sociale, sul legame tra violenza istituzionalizzata e dispositivi di sorveglianza e punizione (e non è che sia proprio obbligatorio leggere verbosi libri di Foucault per farlo). Una riflessione quantomai necessaria in un Paese in cui gli anni zero del nuovo millennio si sono aperti con la morte di Carlo Giuliani e sono proseguiti con quelle di Gabriele Sandri, Federico Aldovrandi, Stefano Cucchi. Ma i tempi di Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto appaiono lontani, così come è lontana in A.C.A.B. la cronaca recente, che si è ormai fatta Storia, del nostro Paese, confinata a un fuoricampo televisivo oppure occultata nelle pieghe di una memoria-vergogna.

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