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January 25, 2012

What we talk about when we talk about Anne Frank

Cristina Vezzaro

È del 12 dicembre, la copia del New Yorker. Ma con l’avvicinarsi del Giorno della Memoria mi è tornato in mente questo racconto di Nathan Englander pubblicato poco più di un mese fa. Si intitola What we talk about when we talk about Anne Frank, e dà il titolo alla nuova raccolta di racconti pubblicata da Englander.

Siamo in Florida ed è in corso una reunion: due amiche dei tempi del liceo ritrovatesi grazie a Facebook e Skype si incontrano con i rispettivi mariti a casa di una di queste. Negli anni, però, è andata insinuandosi tra loro una differenza sempre più profonda: mentre Deb è rimasta a vivere in Florida, dove si è sposata e ha avuto un figlio, Lauren (ora Shoshana) e il marito Mark (ora Yerucham) si sono trasferiti in Israele, dove hanno avuto 10 figlie.

Una scelta radicale di vita come quella desta, persino in altri ebrei, un mix di emozioni: timore di non rispettare le rigide regole che riguardano il cibo kosher o le abitudini ortodosse che impediscono ad esempio che persone di sesso opposto ballino insieme (che è poi la ragione per cui gli ortodossi non fanno sesso in piedi, recita la battuta), da un lato, e curiosità e desiderio di provocazione, dall’altro.

A spezzare i due fronti è il fumo, di cui i due ortodossi dichiarano di fare ampio uso e che i due floridiani sembrano invece non utilizzare da anni, ma non il figlio, che ne tiene un po’ nascosto nella cesta del bucato, come ha scoperto di recente la madre. Che non lo avesse detto al marito sembra insinuare un primo dubbio circa la loro unione, all’apparenza ottima, e il marito all’improvviso si sente escluso. Su quella sensazione e sulla condizione del figlio fa leva Yerucham per sottolineare come l’essere ebrei non sia una questione culturale ma religiosa, e come nascere e crescere ebrei in America in fin dei conti non significhi niente. Non solo, persino l’Olocausto sembra perdere senso, quando Yerucham racconta di come in palestra abbia riconosciuto, seduto accanto al padre, un uomo sopravvissuto ai campi di sterminio che aveva inciso sul braccio un numero di pochissime cifre diverso da quello del padre. E come i due si fossero sostanzialmente ignorati.

È così che viene fuori un gioco ossessivo che la donna in Florida fa da quando è piccola: capire chi tra i cristiani – vicini, amici, colleghi o fidanzati – li salverebbe e chi invece li consegnerebbe ai nazisti. E solo quando a essere messo in discussione è l’ortodossissimo Mark-Yerucham – quello che sostiene che il vero Olocausto è il pericolo che tutti gli ebrei d’America si sposino con delle shiksa mettendo a rischio le tradizioni e il destino di un popolo, che l’essere ebrei in America si perda in meandri culturali anziché ancorarsi nelle pratiche religiose, quello che sembra detentore di una vita-matrimonio-famiglia indistruttibili – solo allora la figura integra e integralista dell’uomo sembra incrinarsi sotto il fuoco incrociato del dubbio della moglie e dei due coniugi statunitensi.

Racconto sottile, feroce, sulle differenze culturali e su ciò che è la morale, al di là della religione. Racconto sui fantasmi e le false certezze e le paure raccolte nel DNA di un popolo. Anche questa è memoria.

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There are 2 comments for this article.
  • max · 

    l’atmosfera mi ricorda un po’ quella che si respira nell’ultimo film di Polanski, Carnage.
    sono curioso di leggerlo…

  • Cristina Vezzaro · 

    hai ragione max, sono sempre in quattro a confrontarsi con idiosincrasie personali e collettive, ma agli ultraliberali newyorchesi qui si oppongono ortodossi con 10 figli… la scrittura però è davvero appassionante… buona lettura!