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January 19, 2012

La guerra di Teo: Kai Zen, spin off e un golpe in Sudtirolo

Franz

Ieri sera alle 20:30 al centro giovani di Bressanone era presente il giovane scrittore altoatesino Jadel Andreetto, in rappresentanza del collettivo Kai Zen, in compagnia di Simone Sarasso (confinedistato.blogspot.com).
Assieme hanno fatto un tour che li ha portati a New York, Boston e Toronto e ora bissano con Bressanone.
Qualche anno fa Simone firmò un graphic novel distopico intitolato United We Stand (pubblicato da Marsilio) e chiese a Kai Zen di scrivere uno spin off (che poi venne pubblicato in un’antologia dedicata alla resistenza).
Lo spin off in questione si chiama “La guerra di Teo” ed è ambientato in Sudtirolo… in un futuro prossimo in cui l’Italia subisce un golpe fascista…
Franz, grazie a Jadel, lo pubblica qui di seguito.

KAI ZEN
La guerra di Teo
Kriegsbericht der Alpenjägerabteilung Andreas Hofer / Foliet de vera dla brigade partisan André Hofer / Bollettino di guerra della brigata partigiana Andreas Hofer / Sudtirolo AD 2013
(liberamente ispirato al graphic novel United We Stand di S. Sarasso e D. Rudoni)

Dal bollettino della brigata partigiana Andreas Hofer, aprile 2013

Quando sono arrivato alla baita oltre confine, attraverso alcune vecchie vie per la transumanza, ho preferito entrare dal retro. D’inverno è un punto di ritrovo per gli sciatori e d’estate per chi fa trekking o nordic walking. In questo periodo non dovrebbe esserci quasi nessuno, ma non si sa mai. Le giornate stanno diventando sempre più belle e qualche turista o scalatore potrebbe fare sosta per un piatto caldo.

La porta sul retro era aperta. In cucina, l’acqua bolliva nel pentolone, coltelli e mezzelune abbandonati su cumuli di cipolla tritata, prezzemolo, cubetti di pane e dadini di speck. Come se tutti fossero spariti all’improvviso, lasciando il lavoro a metà. Ho abbassato il fuoco sotto la marmitta, poi ho sentito un ronzio provenire dalla Stube, ho allungato il collo per vedere. L’intera famiglia che vive nella baita, tre adulti e due ragazzini, un pastore, più una coppia di trekker in visita seduti in silenzio davanti al televisore, i volti azzurrati dal bagliore dello schermo. Un’edizione straordinaria del telegiornale su ORF 1: immagini concitate alle spalle dello speaker e una scritta in sovrimpressione: Wirksam Staatsstreich in Rom. Ex premier Silvio Berlusconi gestorben.

La ragazzina mi ha lanciato un’occhiata distratta, facendomi cenno di aspettare. Mi sono seduto su uno sgabello al bancone del bar, sormontato da un enorme teschio di cervo. Qualcuno ha cambiato canale. La ZDF, ma sullo schermo le stesse immagini. L’escalation bellica tra Stati Uniti e Cina sembra dimenticata dal resto del mondo per qualche secondo, è successo qualcosa di grosso. Va in onda per l’ennesima volta, da quanto ho capito, il discorso a piazza Venezia del capo della coalizione di sinistra che ha appena vinto le elezioni in Italia, Stella T., interrotto dal rumore degli elicotteri. Un milione di occhi puntati verso il cielo.  L’Italia è sotto scacco. Approfittando della crisi internazionale tra i colossi americano e cinese, che attira ogni attenzione, un manipolo di militari ha fatto fuori premier e vice del governo precedente e ha rovesciato il governo non ancora insediato. Cazzo. Un colpo di stato. Scontri in tutto il paese, città messe a ferro e fuoco. Legge marziale, tradimenti, uccisioni. Clandestinità. Resistenza.

Dopo quel giorno, ho continuato a seguire le informazioni sui media austriaci e tedeschi, rischiando anche di farmi beccare. Il mio volto, nonostante tutto, figura ancora tra i ricercati italiani anche nelle caserme della polizia austriaca.

E io? E noi? Che si fa ora? Noi che siamo qui, a cavallo tra Italia e Austria? Noi che non abbiamo mai capito bene cosa siamo, chi siamo? Qual è il nostro ruolo in tutto questo?

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 15 maggio 2013

Quando Herbert mi ha detto di sparare non ci potevo credere. Non ero ancora pronto a una cosa così. Così vera. Mi ha detto proprio: “Spara, Teo.” Secco, come se non c’era altro da aggiungere. E in effetti cos’altro si doveva dire? Non c’era modo di addolcire la pillola, di rendere più umano e naturale quello che andava fatto senza esitare. Ho tirato su la glock di mio zio – l’avevo fregata alla sua pregiata collezione di armi storiche, ormai saccheggiata – e preso la mira. Ho preso la mira e ho fatto finta di non sentire. Ho cercato di non pensare, perché sapevo bene che se pensavo avrei cominciato a tremare, e poi chi poteva dire come andava a finire? Ho preso la mira e ho pregato per la salvezza di qualcuno, di qualcosa. Per la salvezza di qualsiasi cosa. Non sapevo bene cosa: ti prego fa’ che qualcosa si salvi da tutto questo, fa’ che l’orrore abbia senso. Non so se mi abbia ascoltato, ammesso che ci sia un ascoltatore.

Ho preso la mira e ho sparato. Fatto quello che dovevo.

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 3 marzo 2013

Il mese scorso frequentavo il terzo anno della scuola alberghiera, a Merano. Il Ritz lo chiamavamo, non tanto per presa in giro, ma perché si chiama proprio Cesare Ritz. E poi è un bel posto pulito e tutto quanto. Stavo a convitto lì, in stanza con due ragazzi, uno di Bressanone e l’altro di Salorno. Tetano e Ludwig. Tetano non è che si chiami davvero così, il suo nome è Alboino, ma tutti gli dicono Tetano per via della ruggine. Nel senso che non vede una ragazza da quando è nato. Tetano è neanche brutto, in fondo. Giusto gli occhiali un po’ spessi e pallido. Ma di fisico è messo bene, salta in lungo come un grillo, è arrivato secondo ai campionati regionali. Però con le donne non ci sa fare. Niente. E allora, Tetano.

Ludwig manco lo capisco perché si è iscritto all’alberghiera. È una mente, sa un sacco di cose di politica e legge tutto il tempo. Penso sia per via dei genitori che hanno un B&B. Chissà, magari se Ludwig era più portato per servire ai tavoli ora non stavamo qui.

Io sono discreto in italiano e geografia, buono in cucina e sala-bar e parecchio scarso in tutto il resto. Tutto a posto con le ragazze, altro che Tetano. Mi basta per stare a galla, non mi sono mai lamentato di niente. Ma sto divagando, e non ho tempo per divagare.

Avevamo appena iniziato il secondo quadrimestre e la pagella del primo non era neanche male. Filava tutto liscio, poi un pomeriggio accendo la Tv e mi scoppia la guerra nucleare in faccia. Niente di quello che ti è accaduto prima può prepararti a una cosa del genere. Niente. Ludwig però sembrava sapere già cosa fare. E quello che avrebbe fatto non aveva niente a che spartire con la gestione di un alberghetto. In quei giorni le lezioni furono sospese e gli ospiti del convitto rimandati a casa. Oltre alla guerra, sul fronte nazionale già da tempo c’erano segni di tensione, episodi di intolleranza fascista, rappresaglie, solite storie. Io i genitori non ce l’ho, dovevo tornare da mio zio, ma non mi andava di sorbirmi i suoi deliri di stratega militare mancato. Sicuro come la morte che si era messo a oliare tutto l’arsenale in previsione e nella speranza di utilizzarlo.

Quando gli dissi che rimanevo al convitto, Ludwig mi scrutò a lungo. Poi disse: “Le lezioni non riprenderanno, Teo. Non più. È meglio se vieni con me.” Risposi che magari i suoi non avrebbero avuto piacere a ospitarmi in un momento come quello. “Non vado mica dai miei” disse lui. “È ora di fare qualcosa di più che parlare a vanvera e rifugiarsi a casa dalla mamma.”

Mi parlò della Brigata Andreas Hofer per tutta la notte. Partimmo all’alba per le montagne.

Era solo il mese scorso. Sembra una vita fa.

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 5 marzo 2013

Il contatto di Ludwig si era mostrato infastidito dalla mia presenza. Nell’osteria non c’era nessuno a parte noi e lui. “Non mi avevi parlato del tuo amico. È troppo giovane, in Brigata non c’è posto per uno così giovane.”

“Ha solo due anni meno di me ed è in gamba. Garantisco io per lui. Ci sarà bisogno molto presto di tutti, vedrai.” Il suo tono mi fece raddrizzare la schiena.

La Brigata a me pare una via di mezzo fra una società segreta e un gruppo resistenziale. Si fanno azioni contro le bande di nazisti del luogo con cui un tempo si era amici. “Si sa, regionalismo e nazionalismo a volte vanno a braccetto” mi aveva spiegato Ludwig. “Poi, un giorno, di colpo, abbiamo iniziato a scannarci a vicenda”. Coi fascisti italiani, invece non c’è mai stata intesa, l’odio reciproco risale a prima ancora delle elezioni. Quelli erano stati i primi a subire le azioni della Hofer e anche i primi a reagire. Quasi tutti I membri della Brigata che ho conosciuto sono di lingua tedesca e con la fissa dell’indipendenza del Tirolo. Fissati, ma brava gente. Coraggiosi e schierati dalla parte giusta.

Da quando è iniziato il conflitto nucleare anche quelli che partecipavano alle azioni continuando a fare una vita normale si sono ritirati sulle montagne, in rifugi, stalle, casematte e ruderi abbandonati. Siamo ovunque, siamo in nessun luogo. Siamo invisibili e facciamo male.

L’altroieri mi hanno scelto per una rappresaglia. C’è questa azienda di legnami molto bene avviata e molto bastarda, a quanto ci dicevano. Il proprietario è un fascio che fa la vita difficile a chi è di lingua tedesca. Ne assume meno che può e gli assegna turni di lavoro massacranti. Così si è deciso per una punizione.

Ho suonato al cancello della sua villa. Gli altri erano già appostati. È venuto ad aprire proprio il padrone di casa. Ti va a fuoco il capannone! Gli ho gridato (‘sta gente se non gli tocchi il soldo non muove un passo). Cosa? Mi ha risposto, incredulo. Ma almeno un passo fuori dalla porta l’aveva fatto. E tanto è bastato: Ludwig e altri due l’hanno bloccato e imbavagliato. Col cappuccio in testa lo hanno trascinato nell’autorimessa. Io ed Herbert abbiamo preso la sua compagna. Non ha fatto resistenza. Quando siamo entrati nella rimessa, il bastardo era a terra, sempre incappucciato, e stava facendo il pieno di calci. I compagni lo insultavano in tedesco. Abbiamo fatto sedere la donna su un copertone. Mi hanno detto “Sistemala!” Ho fatto come chiedevano. Uno di noi riprendeva. Non ne vado fiero.

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La telecamera inquadra le spalle di un ragazzo che suona il campanello di un cancello elettrico. La porta oltre il cancello si apre e la figura di un uomo viene incorniciata dalla luce interna. Il ragazzo urla che qualcosa va a fuoco. L’uomo avanza sul patio. Risponde: audio confuso. Dietro l’uomo compaiono delle ombre che lo aggrediscono. Colluttazione. Stacco.

Interno di un garage. Audio ridondante. Un uomo a terra, incappucciato. Altri uomini lo colpiscono a calci e pugni. Uno gli affonda nello stomaco e nel basso ventre un lungo bastone. Mugolii soffocati.

Carrellata a destra. Una donna seduta su un copertone, le mani legate dietro la schiena. Un ragazzo le taglia i capelli a ciocche intere. Poi passa al rasoio. Primo piano della ragazza mentre viene rasata a zero. Piange. Stacco. -stop-15:27

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 20 aprile 2013

Cazzo se Ludwig aveva ragione! Io nelle elezioni un po’ ci speravo, lui mi guardava con quel mezzo sorriso scettico, senza dire niente. Qui non era l’unico ad aver capito. Trenta secondi dopo che la sinistra aveva vinto, i fascisti si sono ripresi il paese con le armi. Bastardi infami, ve ne accorgerete di chi siamo!

Io non avevo capito niente ma qui sì, e infatti i ragazzi non hanno perso tempo.

Ci siamo raccolti tutti all’Haderburg, il castello diroccato di Salorno. Una volta era un itinerario turistico, ma ora no. Tutta la Brigata c’era, un botto di gente, ma gli accordi sono stati presi nel silenzio più assoluto. Poche ore dopo, metà di noi è venuta giù da Monte Alto a est e l’altra metà da Monticello a ovest. Ci sono due postazioni militari nella strettoia fra i monti, una di faccia all’altra. In tutto una ventina di soldati. Le abbiamo aggredite all’unisono, urlando e sparando. Tre minuti, massimo cinque, ed era tutto finito.

Abbiamo fatto saltare le frontiere a Salorno. La valle dell’Adige diventa una striscia stretta fra le montagne ma strategica, e adesso la controlliamo noi. Il Tirolo e nostro, fascisti di merda. Venite a prendervelo se avete fegato. Che poi anche se ce lo avete, ve lo strappiamo e ce lo mangiamo crudo.

SUDTIROLO AUTONOMO E LIBERTÀ! 

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 30 aprile 2013

I fasci sono durati lo spazio di un mattino, d’accordo. Giusto quindici giorni di follia e poi il ritorno della vecchia Italia. Meschina e immobile. Tradizionalista e rincoglionita. Impantanata nella sua storia millenaria. Troppo pesante da sopportare, troppo complessa da ricordare e da capire. I vecchi errori saranno ribattezzati come nuove ispirazioni. Ma sarà sempre la stessa merda. Così dice Ludwig, così dicono moltissimi altri. Hanno avuto ragione fin qui e allora perché dovrebbero sbagliare proprio adesso? Non si torna indietro. Democrazia o dittatura non cambia niente. Il Tirolo ce lo siamo ripreso e ce lo teniamo, le frontiere rimangono chiuse e ce ne andiamo per i cazzi nostri! SUDTIROLO AUTONOMO E LIBERTÀ!

Adesso ci vuole un’azione di forza, dimostrativa.

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 7 maggio 2013

Settimana scorsa abbiamo ritrovato Tetano! Durante il periodo del golpe se l’è vista brutta. Era a casa dei suoi a Bressanone e lì il consiglio comunale si è schierato a tempo zero coi golpisti. I nazi figli di troia hanno organizzato subito un servizio d’ordine che manco sotto Mussolini. Ne sono arrivati anche da oltrefrontiera, austriaci e dicono anche qualche bavarese. Prima si prendevano a legnate coi fascisti, ora con loro ripropongono la vecchia accoppiata. Un casino totale che dura ancora oggi. Hanno messo pure il coprifuoco con tanto di ronde su fuoristrada muniti di fari brandeggianti per la ricerca notturna. Lo hanno preso mentre tornava da casa di un’amica. Tetano! Il decano dei vergini senza speranza aveva beccato una donna giusto sotto coprifuoco. A quanto pare il pericolo imminente e la svolta autoritaria impressa dai nazi produce un certo effetto afrodisiaco in alcune giovani donne facilmente impressionabili. Buon per lui. Per la legge del contrappasso però il paradiso si è trasformato in fretta in un inferno con tanto di diavoli e torture. I bastardi dovevano averlo capito subito che Tetano era in giro per i fatti suoi, non ha la faccia di un rivoluzionario pericoloso. Però fra i nazi ci ha raccontato che c’era un vecchio compagno di classe di suo fratello maggiore, uno con cui ovviamente suo fratello si odiava. Anni prima gli aveva pure dato una bella ripassata durante una ricreazione finita a mazzate nelle gengive (le mazzate del fratello di Tetano alle gengive del nazi). E ora com’è nell’ordine naturale di questo mondo infame la ruota aveva girato. Il nazi se lo era portato dentro una stanzetta proprio al municipio, e insieme a un paio di compari suoi gli avevano fatto un po’ di servizietti. Lo avevano frustato (ha dei segni da paura), picchiato e bruciacchiato con le sigarette. Poi, quando per l’ennesima volta gli aveva spergiurato di essere stato solo a scopare con la morosa, avevano messo una pentola d’acqua a bollire. Tetano dice che peggio della tortura sono stati quei venti minuti di attesa che l’acqua bollisse. Non gli avevano fatto niente, in quei venti minuti, nemmeno gli avevano parlato. Solo lui e il pensiero di cosa stavano per fargli. Non sapeva cosa, e questo aggiungeva paura a paura. Alla fine gli avevano strappato calzoni e mutande di dosso e lo avevano messo seduto nudo sulla pentola. Bidé a cento gradi. Giuro che il primo nazi che catturo glielo restituisco con gli interessi.

Tetano adesso è con noi.

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 14 maggio 2013

Non ci posso pensare. I compagni più anziani dicono che la guerra è fatta anche di queste cose. Che ce ne sono a pacchi, anche se uno non se le aspetta. Ti aspetti di morire, ma non ti aspetti questo…

Cercavamo un’azione dimostrativa e proprio Tetano ce l’aveva offerta. Prima ne aveva parlato con me e Ludwig. Era roba grossa, così lo abbiamo portato al comando della Brigata. Suo fratello Manuel presta servizio alla caserma del Genio di Roverè della Luna, appena oltre frontiera. In molti lì dentro starebbero dalla nostra parte, compreso Manuel, ma il comandante del reggimento è un testa di cazzo, fedele alla patria che manco un carabiniere. Manuel si è offerto di organizzare un turno di guardia in caserma con tutta gente fidata, gente che sta con noi. Primo turno di notte, mezzanotte quattro del mattino. Con i suoi ragazzi a presidiare la caserma, potevamo entrare senza sparare un colpo, occupare il posto e cacciare a calci in culo il comandante.

Ci muoviamo in settanta, dieci squadre da sette. Passiamo la frontiera e ci appostiamo nei pressi della caserma. Tutti sanno già cosa fare. Due squadre per tenere a bada ogni Compagnia, una squadra per il Comando, una per l’armeria, una per il parcheggio automezzi e l’ultima di guardia fuori dal perimetro. Entrare è facile come previsto. Io, Tetano, Ludwig, Herbert e gli altri della mia squadra dobbiamo prendere possesso della Compagnia Comando e Servizi, che poi dovrebbe essere una passeggiata perché è la Compagnia di Manuel, e Tetano ci ha detto che sono tutti con noi tranne un paio di reclute poco affidabili. Entriamo di corsa e li buttiamo giù dalle brande. Tutti in mutande e nel centro del corridoio, mani sulla testa. Giusto per non rischiare. Mentre Ludwig comincia a parlare per spiegargli cosa è venuta a fare la Brigata Hofer nella loro caserma, avverto una specie di vibrazione dai cessi in fondo. Tutti insieme, come richiamati da un ultrasuono, i soldatini in mutande si buttano per terra. Sanno qualcosa che noi non sappiamo. Faccio appena in tempo a voltarmi e vedo uno sbarramento di fuoco.

Diavoli in mimetica che sparano altezza uomo. Io e Herbert riusciamo a rintanarci in una camerata e rispondiamo al fuoco, ma la maggior parte di noi viene falciata. Mi volto indietro e vedo Ludwig a terra: la testa gli è esplosa. Poi vedo una cosa strana: Herbert che spara a una gamba di Tetano e se lo trascina fuori dalla finestra mentre urla come un maiale. Vorrei anch’io trascinare Ludwig con me ma non posso. Anch’io salto giù da una finestra: farlo è più facile che dirlo, la Compagnia Comando sta al piano terra. Raggiungo Herbert che sorregge Tetano ormai svenuto. Non è tempo di chiedere spiegazioni, è tempo di schizzare via. La caserma è una trappola per topi e i topi siamo noi. L’unica è fregare un mezzo pesante e sfondare il cancello con quello. Grazie a Dio Herbert una volta guidava i TIR. Per strada riusciamo a raccattare una quindicina di disperati come noi: la scena che abbiamo vissuto si è ripetuta simile per ogni squadra. In giro è tutta una caccia all’uomo. È ovvio che ci stavano aspettando. Saliamo su un autocarro semicorazzato e perdio sfondiamo di brutto. Mentre usciamo, col motore che urla fuorigiri, mi metto pure a mitragliare all’impazzata.

Più tardi, in uno dei rifugi del Monte Alto, Herbert dice poche frasi, pesanti e profonde come tombe. Dice: L’ho visto. Dice: Si è buttato giù in anticipo, insieme agli altri soldati. Dice: Sapeva già tutto, ci ha attirati in trappola. Dice: Deve morire, chiaro.

Chiaro che deve morire, chiaro. Come è morto Ludwig. Per pagare la morte di Ludwig, deve morire Tetano. I miei amici di una vita che non c’è più.

Tetano non ha nemmeno la forza di negare. Riesce solo a piangere e a dire Siete pazzi. Non sono io che tradisco voi ma voi che tradite l’Italia! Cazzo, peggio di un carabiniere. Che tristezza.

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 15 maggio 2013

Quando Herbert mi ha detto di sparare non ci potevo credere. Non ero ancora pronto a una cosa così. Così vera. Mi ha detto proprio: “Spara, Teo.” Secco, come se non c’era altro da aggiungere. E in effetti cos’altro si doveva dire? Non c’era modo di addolcire la pillola, di rendere più umano e naturale quello che andava fatto senza esitare. Ho tirato su la glock di mio zio – l’avevo fregata alla sua pregiata collezione di armi storiche, ormai saccheggiata – e preso la mira. Ho preso la mira e ho fatto finta di non sentire. Ho cercato di non pensare, perché sapevo bene che se pensavo avrei cominciato a tremare, e poi chi poteva dire come andava a finire? Ho preso la mira e ho pregato per la salvezza di qualcuno, di qualcosa. Per la salvezza di qualsiasi cosa. Non sapevo bene cosa: ti prego fa’ che qualcosa si salvi da tutto questo, fa’ che l’orrore abbia senso. Non so se mi abbia ascoltato, ammesso che ci sia un ascoltatore.

Ho preso la mira e ho sparato. Fatto quello che dovevo.

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La stanza è grigia, male illuminata. La telecamera inquadra un tavolo con su una brocca e un bicchiere, poi si sposta nell’angolo a destra. Un ragazzo accovacciato, le ginocchia al petto, singhiozza. Sguardo perso davanti a sé. Ha meno di vent’anni.

Una voce fuori campo recita: “Alboino Ferretti si è reso colpevole di Alto Tradimento. La sua condotta vile ha causato la morte di decine di compagni e un colpo gravissimo alla Brigata Andreas Hofer, compromettendone l’operatività. Per questi motivi l’imputato viene condannato a morte. Sentenza inappellabile da eseguirsi mediante fucilazione. Immediatamente.”

Due uomini entrano nel campo di ripresa sollevano il ragazzo per le braccia. Stacco.

Il ragazzo è in piedi contro un muro. Per terra righe dipinte delimitano i confini di un campo da gioco. La palestra di una scuola. Il ragazzo è ingobbito, le mani una dentro l’altra. L’espressione del volto è assente. L’audio esplode in una raffica. La telecamera sobbalza e si sposta, poi l’immagine torna a fuoco. Il ragazzo è a terra. È scosso da tremiti alle gambe.

Una voce dietro la telecamera impartisce un ordine: “Spara, Teo.”

Un ragazzo, più o meno coetaneo del condannato, entra nel campo di ripresa e si avvicina al corpo a terra. Impugna una pistola automatica. Punta alla testa per il colpo di grazia. Esita. Ancora la voce da dietro la telecamera: “Spara, Teo.” stop 12-34

Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 17 maggio 2013

Dopo la carneficina di Roverè e la morte di Tetano ci aggiriamo per il rifugio come cani rabbiosi in gabbia. Herbert si è scolato una dozzina di lattine di birra davanti al pertugio da cui dominiamo la valle. È in attesa di qualcosa che non c’è.

Siamo rimasti io e lui per il momento. Ci hanno contattato due ragazzi ladini scampati alla strage di Corvara. Ci raggiungeranno al punto di incontro d’emergenza della Brigata. Il santuario.

Ho freddo. Non so se è il brusco calo di temperatura di questi giorni o qualcosa che sale da dentro. Ho cercato una coperta o un giubbotto in alcuni bauli e sotto una branda. Ho trovato la valigia di Davide Guerra. A lui non serve più. Dentro, un beauty-case con spazzolino e dentifricio, un k-way, un maglione, un paio di jeans, una copia devastata de “L’unico e la sua proprietà”, un mazzo di penne bic e un moleskine appena iniziato. Non ho potuto fare a meno di leggere i suoi appunti brevi e confusi. Ho provato un senso di spaesamento. Ho tremato.

Cosa sto facendo qui? Non sono l’unico a chiederselo. Riporto quanto ha scritto Davide. Non so perché. Ma sento che devo farlo. Mi rendo conto di quanto poco conosciamo gli altri. Di quanto poco capiamo gli altri. Con Guerra ho scambiato qualche parola da quando è cominciato tutto questo. Non lo conoscevo nemmeno prima, ma sembrava un ragazzo gentile, con una buona parola per tutti. Ora è carne morta. E io sento di dover quasi tirare un sospiro di sollievo. Capirò, se ci sarà QUALCOSA da capire, solo quando tutto sarà finito. Se non mi ammazzeranno prima e se non perderò la testa nel frattempo.

Italiano di merda. Walsche. Ancora con queste cazzate. Se sono qui non è per una questione di patria. E così

come me molti altri. Tedeschi, ladini, italiani. È lo stesso. Nessuno di noi, o quasi, ha mai badato a queste

stronzate fino a ora. Sono questioni rimaste irrisolte per molti, troppi anni, questioni politiche alimentate da quattro vecchi del cazzo. Fasci da una e dall’altra parte. Menti così strette che al confronto il buco del culo di un passero sembra il tunnel del Brennero. Eppure rieccoci. Italiano di merda.

Per cosa combatto? Per il Sudtirolo libero? Libero da cosa? Se ancora i miei compagni, dopo tutto quello che è successo mi chiamano italiano di merda e mi guardano storto.

C’è stato un tempo, in cui io, anarchico per gioco, bevevo allo stesso tavolo dei “punk rurali”, ragazzi di lingua tedesca figli di contadini milionari che studiavano filosofia a Vienna e Berlino. Con loro sognavamo una Bolzano diversa. Volevamo un centro sociale occupato, uno come quelli visti nelle città grandi, volevamo concerti, cinema, librerie, musei… parlavamo – in italiano perché io il tedesco lo parlo malissimo anche se l’ho studiato tutta la vita, dall’asilo alle superiori – di libertà, ma non facevamo altro che ubriacarci a caraffe di zibibbo in uno squallido bar del centro o suonare in qualche garage convinti di essere i nuovi Nirvana, convinti che questa città pidocchiosa fosse Seattle. E poi via, chi a Bologna, chi a Innsbruck, chi a Padova e chi a Trento. Chi addirittura a Londra.

Troppi soldi. Troppi davvero per un posto che non sa come spenderli, per un posto dove la cultura la fanno le istituzioni, pure quella alternativa. Sbadigli, sbadigli e ancora sbadigli. Qualche chiavata in campagna vicino all’ospedale ma non con le ragazze italiane. Le ragazze italiane se la tirano. Si truccano, si vestono di tutto punto, sono sexy ma non la danno. Mi sono sempre chiesto per quale cazzo di motivo si mettessero in ghingheri, come se avessero un invito per la premiazione degli oscar (del porno) per andare al bar sotto casa se poi, al momento di divertirsi, si tirano sempre indietro… Che città del cazzo. Che posto del cazzo. E allora perché combatto? Per chi? Per cosa?

Italiano di merda. Fanculo. Ti sparerei nei coglioni, se non fosse che forse hai ragione.

Italiano di merda.

Non saremmo mai dovuti venire qui. I miei nonni, con le pezze al culo dal Veneto, in fuga dall’alluvione del Polesine e con la speranza di un lavoro alle acciaierie, con il Duce che regalava loro una casa alle Semirurali, a Shanghai. Che tempi.

Ricordo il vecchio che mi raccontava di come dovesse attraversare tutta la città da via Parma fino alla stazione per poi dover rifare lo stesso percorso a ritroso sull’altra riva del fiume per arrivare in fabbrica, perché c’era un solo ponte per attraversare l’Isarco. Ponte Loreto.

Ogni volta che ci passo immagino le processioni grigie di operai, con la schiena dritta e lo sguardo fiero, alle cinque del mattino con -15° e il fiume congelato e poi penso a quelli di oggi con la bmw, con le rate della bmw, che con lo sguardo spento e la schiena curva si trovano al New Pub, al Fantasy, al Bar Corso, a La Destra, al Bar 8 a brindare alla fine del “governo comunista” più breve delle storia, a gridare “Eia Eia Alalà”.

Per chi combatto allora? Per qualche fottuto nostalgico del Kaiser? Per qualche nazista separatista di ‘sta minchia, per i contadini con i soldi che gli escono dal culo – neanche le loro mele del cazzo, pagate con le nostre tasse, fossero d’oro – per i punk rurali che sono rimasti a Vienna e a Berlino a parlare di anarchia e a tirare di speed? Per i miei compagni che mi chiamano Walsche? Per difendere la città bomboniera e i suoi privilegi? Per le bolzanine che se la tirano talmente tanto da averla più secca di una pietraia? Per la sezione ladina della Brigata che è stata spazzata via mentre difendeva i suoi privilegi e suoi alberghi di lusso a Corvara?

Fanculo. Combatto perché non posso fare altro. Perché altrimenti la mia vita sarebbe solo un trascinarsi di bar in bar e da quando ho fatto saltare la testa a un fascio mi sento vivo.

Teo dice che l’orrore è arrivato. Ben,e per me l’orrore è stata la vita sotto vetro che ho passato in Sudtirolo. E allora Sudtirolo libero, libero da sé stesso. E quando avrò finito di ammazzare i fasci, ammazzerò anche i miei compagni facendomi saltare in aria assieme a loro. Tedeschi di merda.

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La telecamera inquadra un taccuino chiuso appoggiato su un letto. Le mani dell’operatore lo aprono, la calligrafia è incerta, tremante. Il fuoco va e viene. Zoom sulla parola “libero”.

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Dal bollettino della brigata Andreas Hofer, “La guerra di Teo” 20 maggio 2013

Ci siamo incontrati al santuario. Grones e Furcia sono sconvolti, feriti e disperati. Herbert non ha fatto complimenti e li ha perquisiti anche sotto i bendaggi. Il suo timore che possano averli seguiti non è infondato. Qui stiamo rischiando la pelle. Sto importando nel portatile le foto e i filmati che i ragazzi sono riusciti a fare a Corvara. È impressionante. Hanno messo a ferro e fuoco il paese per stanare la piccola colonna ladina della brigata. I partigiani hanno ripreso i carri armati mentre frantumano il selciato davanti alla ciasa de comun, e i militari fare fuoco sulla gente che si era radunata nella piazza auditorium per un’assemblea cittadina. La colonna ha contrattaccato. Erano in tredici. Si sono salvati solo loro due. Dal Veneto continuano ad arrivare mezzi di esercito e carabinieri per occupare del tutto Corvara. Nel disco rigido della videocamera c’è anche una ripresa della fuga di George Clooney a bordo di un elicottero. I badiotti, come scriveva quel folle di Guerra, volevano difendere i loro privilegi, pensavano che essere ricchi bastasse loro per salvarsi il culo. Non hanno fatto i conti con il fanatismo dei golpisti. Mentre aggiorno il bollettino, Herbert e i due ragazzi – cazzo sono davvero giovanissimi – stanno cercando di capire cosa fare e dove andare. Tengo la camera wi-fi accesa, anche se le batterie sono quasi scariche. Qualsiasi cosa succeda, devo documentala. Mandarla in rete. Diffonderla. Siamo tesi come corde, l’arma sempre accanto. Ma all

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Interno. Penombra. Teo è seduto davanti al laptop, il volto illuminato dallo schermo. Herbert alle sue spalle parla a bassa voce con due ragazzi giovani. Uno ha un braccio al collo e la testa fasciata, l’altro sembra in forze. All’improvviso un rumore forte. Si voltano tutti in un’unica direzione, afferrano le armi e si dirigono verso l’uscita. Teo prende la videocamera. Immagini confuse. Rumore di spari, lampi bianchi. Teo appoggia la videocamera in alto, su una superficie piana. È di nuovo ferma. Il campo è ristretto. Una parte dell’inquadratura è schermata da un oggetto non definito. Immobile. Teo spicca un balzo all’indietro. Dall’altra stanza provengono boati e urla. Teo con la pistola in pugno corre verso la porta. Si ferma sullo stipite, allarga le gambe ed esplode alcuni colpi. All’improvviso, viene sbalzato all’indietro. Il suo corpo si contorce a terra, tra la polvere. Alcuni uomini armati, a volto coperto, fanno irruzione ad armi spianate. Sono quattro. Si fermano, si guardano attorno, uno di loro si avvicina al computer di Teo, lo chiude e lo mette in uno zaino ed esce. Altri due afferrano il corpo di Teo e lo trascinano fuori. L’ultimo perlustra rapidamente la stanza. Accende una torcia e la punta rapido in diverse direzioni, poi se ne va.

Penombra.

RVM 18:29-rec

:::Low batteries::: 30.29.28.27.26.25.24.23.22.21.20.19.18.17.16.15.14.13.12.11.10.9.8.7.6.5. Effetto neve. Ronzio. Buio.

 

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  • lucia munaro · 

    Sarà perché il nome Teo (chi conoscevo io lo scriveva però con la h: Theo) mi muove qualcosa e per me inpersonifica anche una guerra, se si vuole, ma di genere familiare che è coincisa con una buona parte della mia vita (e l’infrangersi di un amore oltre confine ha certo avuto a che fare anche col nostro strano Sudtirolo, che si chiama Südtirol-AltoAdige),
    la curiosità insomma mi ha portato a leggere il racconto scritto da Kai Zen (a Jadel vorrei anche chiedere come funziona la scrittura a più mani, almeno nel vostro caso)
    Sono quelle coincidenze che ti fanno sembrare di avere qualcosa in comune con un resto del mondo, che manco avresti immaginato esistesse. Qualcuno che scrivesse così del Sudtirolo o Alto Adige, che desse una forma esplicita alla parte schizofrenica, necessariamente schizofrenica, di chi è nato qui e di lingua italiana, perché anche alla larga siamo tutti conseguenze della politica fascista, non sapevo ci fosse.
    Mica che mi piaccia particolarmente il genere del racconto, ma non sono le mie preferenze in discussione ora. Probabilmente avrà un pubblico che lo apprezza.
    A me ricorda quando ero giovane io e certi miei tentativi di elaborare una realtà nella quale non mi orientavo o non volevo orientarmi e i trabocchetti della convivenza, la voglia di conoscere la storia, ma affabilmente, per non sentirmi in colpa solo perché sono italiana, di trovare ideali più grandi dei nazionalismi, per lo stesso motivo e soprattutto il grande magma della presunta identità. Insomma La guerra di Teo di Kai Zen, mi sembra un conato di vomito giovanile, ma terapeutico. Ecco, Kai Zen cresceranno anche loro, si faranno una ragione delle contraddizioni del Sudtirolo, riusciranno a masticarle e a mandarle giù, sempre che il troppo successo non li inchiodi all’iperbole del gergo e del genere. and so on..

  • J · 

    Be’ proprio giovani giovani non siamo… la media è sui quaranta. La cosa interessante (forse) è che solo due di quattro KZ sono sudtirolesi anche se da più di tre lustri vivono altrove (me compreso) mentre gli altri due sono, uno di Messina e uno di Sesto San Giovanni (MI)… Sulla scrittura collettiva, tornerò in seguito.