Music

December 28, 2011

Matteo Franceschini, da Trento a Parigi cavalcando una passione

Emilia Campagna

Si è buttato a capofitto nell’avventura della musica, andando a costruire il suo sogno nella città in cui chiunque ama l’arte vorrebbe vivere: Matteo Franceschini, trentaduenne di Trento, mix di curiosità e disciplina, risiede a qualche anno a Parigi, dove fa di lavoro il compositore (espressione che in Italia suona strana, ma in Francia è assolutamente normale) e di lui si parlava nell’ultimo numero di XL, in un articolo dedicato all’Accademia Americana di Roma.

Matteo, come sei finito su XL?

La rivista ha dedicato un ampio servizio all’Accademia Americana, dove sono ospite ancora per tre settimane (purtroppo il periodo si sta concludendo); è un progetto che mi è stato offerto l’anno scorso e che prevede tre mesi e mezzo di presenza come compositore in residenza. L’Accademia assegna un premio ad artisti americani ma ogni anno invita anche tre italiani, esponenti del mondo del design, della musica e dell’architettura; si partecipa a tutta la vita dell’Accademia con uno spazio di lavoro a disposizione, in condizioni assolutamente eccezionali.

In questi giorni sei a Roma, ma la tua vita si svolge a Parigi. Ci racconti come sei arrivato lì?

Sono arrivato nell’ottobre 2006 dopo l’ammissione all’IRCAM, selezionato assieme ad altri nove compositori; dunque sono andato a Parigi per studiare e seguire un anno di corso di musica elettronica. L’IRCAM dà poi la possibilità di rimanere un secondo anno, che in parte è ancora di formazione, in parte, ed è la cosa più interessante, si lavora su un progetto artistico di ampio raggio; ho avuto così modo di lavorare a un mio progetto artistico più ambizioso con alle spalle una struttura di produzione davvero eccezionale. Di lì in poi ho cominciato ad allargare i miei contatti, ad avere delle commissioni, dei progetti di residenza, insomma a fare la professione del compositore a tempo pieno, al punto da decidere di rimanere a vivere a Parigi. Adesso sono compositore dell’Orchestra dell’Ile de France, una delle cinque orchestre parigine.

Com’è la vita di un compositore a Parigi?

Parigi è una città estremamente ricca, stimolante, e la proposta artistica è talmente abbondante che sei totalmente imbarazzato giorno dopo giorno nello scegliere cosa andare a vedere, cosa seguire. E in tutta Europa resta ancora il polo attrattivo più forte per quanto riguarda la musica contemporanea: ci sono molte orchestre, numerose ed efficientissime strutture di produzione e la mentalità è estremamente professionale, di modo che tutto il sistema funziona molto bene. Negli ultimi 30 anni la cultura è stata gestita con importanti finanziamenti e quindi anche dal punto di vista economico molte strutture hanno risorse che ad esempio in Italia sarebbero impensabili.

Ecco, parliamo della situazione italiana: come la percepisci dal tuo punto di vista “parigino”?

Il momento è difficile a tutti i livelli, non soltanto a quello artistico: ci sono a volte distanze abissali nelle condizioni di lavoro di musicisti, ensemble, compositori in Francia e in Italia. Ovviamente questo riguarda un punto di vista economico, perché è ovvio che con più risorse si hanno più mezzi a disposizione, più tempo per lavorare, possibilità di coinvolgere artisti migliori: è un circolo virtuoso che dipende da una certa mentalità. Nell’emergenza la qualità delle produzioni ne va a detrimento, dopo di che se parliamo di qualità dei musicisti italiani, certo non hanno nulla da invidiare agli stranieri.

E arriviamo a noi e parliamo di Trento e Bolzano: nel 2010 la provincia di Trento ha coprodotto il tuo lavoro teatrale “Il gridario” commissionato dalla Biennale Musica, che però a Trento non è mai approdato, come mai?

Non so, per me resta un mistero. Anche perché si tratta di un lavoro teatrale legatissimo alla storia di Trento e alla sua tradizione musicale, prevedendo in organico un coro maschile (il Coro Croz Corona). Spero che la nuova direzione del Santa Chiara decida di farne un allestimento.

A Bolzano hai avuto più soddisfazioni….

A Bolzano nel 2011 ho avuto una commissione dall’Orchestra Haydn (il concerto Ego per violino, violoncello, pianoforte e orchestra) e un allestimento del mio “My way to hell” al Comunale: devo dire che sono ambiti di eccellenza, ho trovato delle straordinarie professionalità e un’attenzione alla contemporanea non così frequente altrove. C’è fermento e voglia di fare. Ed è un esempio italiano che per qualità delle condizioni di lavoro è all’altezza se non superiore a quello che si trova all’estero.

Parliamo della tua musica: come la potresti descrivere? C’è uno stile, un’etichetta che la può riassumere?

E’ sempre difficile parlare della propria musica e in particolare non mi riconosco in nessuno stile perché cerco di esplorare e avvicinare diversi linguaggi. Sono particolarmente interessato al teatro musicale: non l’opera lirica in senso ottocentesco, ma un teatro aperto, dove posso utilizzare tecnologie audio–video. Faccio un lavoro sulla vocalità, intesa come strumento e nel rapporto con il testo, cercando voci che non vengano da un ambito lirico ma siano aperte a un orizzonte interpretativo più altro. La vocalità popolare, o di ambito rock, o anche quella vocata al repertorio antico, sono più stimolanti e parlano di più alla nostra contemporaneità. Poi la mia cifra è quella di dare una forma, una struttura molto solida a quello che faccio.

Scrivi molto su commissione: hai anche dei progetti solo tuoi, su cui lavori senza una precisa destinazione?

Fortunatamente ho così tanto lavoro che non ho tempo per dedicarmi ad altri progetti, anzi mi è capitato di rifiutare dei lavori. Ma parallelamente all’attività lavorativa vera e propria (che è strutturata con tempi definiti di progettazione, stesura, consegna lavoro, realizzazione) ci sono spazi per idee che nascono e desideri che vorrei realizzare: li porto avanti con appunti e vivono parallelamente al lavoro immediato.

La tua musica si rivolge a un pubblico molto specialistico, per non dire di nicchia: ti poni dei problemi riguardo alla “fruibilità” e al rapporto con un pubblico più ampio?

Certamente, anche se penso che ci sia un falso problema attorno alla “difficoltà” della musica contemporanea: quello della divulgazione è un punto su cui ragiono sempre. Qualche settimana fa sono stato invitato dall’Università di Roma 3 a fare una lezione proprio su questi temi e su ciò che significa essere un compositore contemporaneo oggi. Credo che tutti possano avvicinarsi alla musica contemporanea (anche se ci sarebbe da discutere a lungo su questo aggettivo) che purtroppo è caratterizzata da una cifra negativa perché legata a un’immagine che ci siamo fatti per colpa di un certo tipo di programmazione, di critica, di lavoro intellettuale attorno a questo repertorio dagli anni ’50 agli anni ’80. Sfatiamo il mito che questa musica è cervellotica. Ciò che servirebbe è che chi si avvicina alla contemporanea lo faccia accendendo il lume della curiosità: se andiamo a un concerto possiamo uscirne positivamente stupiti portandoci, dentro qualcosa che forse non dimenticheremo mai. E se non è così niente paura, forse siamo capitati in una serata sbagliata, in cui il compositore non era interessante, il pezzo mediocre o gli esecutori non all’altezza. Ma questo non deve voler dire precludersi ulteriori esperienze di ascolto.

L’approccio alle arti visive contemporanee sembra più diffuso e “facile” rispetto alla musica. Perché secondo te?

Perché la musica vive nel tempo e va vissuta nella sua interezza. Non si può riassumere un pezzo, o “dargli un’occhiata”. E il rapporto con il tempo soffre anche della straordinaria frammentazione a cui l’ascolto oggi è abituato. E’ una caratteristica che nell’atto creativo contemporaneo va sempre tenuta presente, ed è per questo che mi interessa lavorare su progetti di ampio respiro percettivo: una musica teatrale, che coinvolga più sensi, e in cui l’ascolto è vivo e attento a tutto ciò che avviene e cambia velocemente, come in un montaggio quasi cinematografico.

 

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