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December 9, 2011

Immigrati, padri, teatranti: intervista ad Alessandro Gassman

Anna Quinz

Quando si dice il bello di fare il mestiere che si fa. Ecco, io l’ho detto quando qualche giorno fa, un po’ emozionata, ho preso in mano il telefono e ho chiamato Alessandro Gassman. Non capita tutti i giorni di sentire una voce come quella al telefono, e se poi le cose che in 11 intensi minuti ti racconta, sono estremamente interessanti e toccanti, beh, quegli 11 minuti diventano di certo un buon momento della giornata. Da ieri sera al Teatro Stabile di Bolzano con il suo “Roman e il suo cucciolo”, Gassman è di certo una delle punte di diamante del teatro nazionale, per talento registico, per intensità attoriale, e anche per la buona capacità direttiva al Teatro Stabile del Veneto. E cotanta bravura non è scontata, nonostante i gloriosi natali, in un uomo tanto bello che, volendo, avrebbe potuto basare su fascino, muscolatura e fisicità la propria carriera. Ma Gassman ha invece scelto la strada più difficile, ha scelto il teatro, la forza del palcoscenico, a cui è riuscito, grazie al suo nome illustre, ad avvicinare un pubblico davvero vasto. Ne è la prova la folla che ieri ha riempito le poltrone del teatro bolzanino. Folla che poi è anche rimasta pienamente soddisfatta, perché se anche ad attrarla può essere stato il personaggio noto, alla fine non si può non restare colpiti anche e soprattutto dalla sua bravura. Ma, dicevamo, ho telefonato ad Alessandro Gassman, e ho chiacchierato un po’ con lui. Ecco cosa è uscito.

“Roman e il suo cucciolo” è una storia toccante, forte, dura. Quale l’ingrediente fondamentale, per portare a teatro, luogo dello “svago”, una storia così?

La forza primaria dello spettacolo credo risieda nel suo essere iper-realista. L’impressione che si ha è di vedere qualcosa di assolutamente reale e non teatrale. Per raggiungere questo obiettivo, prima di tutto il lavoro di Edoardo Erba sul testo, poi una sorta di mia seconda riscrittura, insieme agli attori, per creare un linguaggio vero e credibile, che dia l’impressione di qualcosa che viene “dalla strada” e non dalla finzione teatrale.

Perché, parlando di immigrazione, i rumeni? E come ha costruito il suo Roman, spacciatore rumeno?

Abbiamo scelto personaggi rumeni perché sono la più grande comunità straniera in Italia, in particolare a Roma, ce ne sono moltissimi. E poi i rumeni hanno una particolarità: apprendono con totale facilità la nostra lingua, anche e soprattutto perché anche la loro è di origine latina. Così, pur mantenendo l’accento della propria terra, immettono nel loro idioma dialetti e cadenze del luogo in cui vivono. Un rumeno di Roma, dunque, parlerà in modo molto diverso da quello di un rumeno di Bolzano. Io per costruire il linguaggio di Roman ho fatto recitare tutta la mia parte a un operaio che lavorava in casa mia.

Ha avuto contatti con la comunità rumena lavorando allo spettacolo? l’hanno visto? Come hanno reagito?

I rumeni sono grandi lavoratori, soprattutto operai. Ma molti, i “cattivi” di cui parlo nello spettacolo, delinquono perché hanno l’impressione che in Italia rispetto ad altri paesi, sia più facile “farla franca”. Ho avuto molti contatti con rumeni durante il lavoro sullo spettacolo, e molti di loro hanno visto lo spettacolo: sono stati molto coinvolti, emozionati e commossi. Poi lo spettacolo è patrocinato da Amnesty International, segno che attraverso questa storia, non volevamo solo avvicinare con la finzione teatrale a queste tematiche, ma anche attraverso qualcosa di concreto. Ogni spettatore all’uscita dello spettacolo trova un banco informativo di questa ottima associazione che fa realmente attività sul campo nel campo dei diritti umanitari, per informarsi e per dare il proprio contributo.

Questo spettacolo, oltre a raccontare un dramma sociale, è anche prima di tutto un dramma familiare. Che padre è Roman? Da padre, come ha inteso questo personaggio?

Essere padre mi ha aiutato molto. Roman è un padre che non sa comunicare, un analfabeta, cresciuto nella Romania di Ceausescu, da una nonna che gli ha insegnato a difendersi con il bastone più che con i libri. Ma è anche un padre che sogna per il proprio “cucciolo” un destino migliore del proprio. Ad esempio, gli consiglia di diventare poliziotto, perché avrebbe una buona pensione. Un futuro dunque di diametralmente opposto dal proprio. Quel che mi ha colpito in questo personaggio è la sua violenza insopportabile, ma anche gli sprazzi di umanità, che – ho scoperto – si trovano anche nelle persone che sbagliano di più.

 “Roman e il suo cucciolo” diventerà presto un film…

Inizio le riprese a marzo. Il film è sceneggiato da me e Vittorio Moroni (Terraferma, Emanuele Crialese). Abbiamo lavorato con intensità per circa 6 mesi e avendo trovato i finanziatori, grazie alla coproduzione tra Rai Cinema e Eagle Picture, ho avuto la possibilità di iniziare la mia carriera come regista cinematografico con i mezzi necessari per fare, spero, bene.

Attore e regista teatrale e cinematografico. Direttore del Teatro Stabile del Veneto. In quale ruolo si trova più a suo agio?

Senza dubbio il teatro, che è anche il luogo da cui ho iniziato. La direzione del Teatro del Veneto mi da la possibilità di scegliere, secondo il mio gusto e questo è di certo un lusso, ma la cosa che più mi appassiona al momento è la regia teatrale, a cui spero di affiancare quella cinematografica. Ma in questa, le mie capacità si capiranno alla fine della realizzazione del film.

 

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