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December 8, 2011

Midnight in Paris, un Woody Allen da 8 e 1/2

Daniele Rielli

Voto 8 e 1/2

“Il mio prossimo film parlerà di una coppia di operai” Questa è la frase che con ogni probabilità non sentiremo mai pronunciare da Woody Allen ma in fondo lo amiamo così, con il suo cinema in grado di fondere in un unico corpus organico l’intrattenimento d’evasione e le tematiche filosofiche che filtrano da una comicità apparentemente spaesata ma sempre in grado di attaccare la vita là dove le sue contraddizioni ci fanno più male. Non fa eccezione Midnight in Paris in cui il protagonista, lo sceneggiatore hollywoodiano di successo Gil Pender, è a Parigi con Ines, la bellissima (e non poteva essere altrimenti trattandosi di un film di Allen) promessa sposa e i futuri suoceri repubblicani. Il protagonista è interpretato da un Owen Wilson che riesce bene nel ruolo dello Schilimazel la “vittima predestinata degli eventi” maschera tradizionale della comicità ebraica che i più  hanno conosciuto attraverso la figura del giovane e imbranato Allen. Gil sogna di non tornare più negli Stati Uniti e rimanere a Parigi per finire il suo libro su uomo che lavora in un “negozio nostalgia” uno di quei posti dove si possono trovare cimeli dei tempi andati, magari di quegli anni 20 di cui Gil è un grande appassionato. I suoi desideri lo rendono oggetto di scherno del prosaico trio formato della fidanzata e dalla coppia di amici che hanno avuto la sfortuna d’incontrare nella capitale francese. A questo punto è necessaria una svolta e similmente a quanto accadeva ne “la Rosa purpurea del Cairo” è qualcosa di magico a cambiare le carte in tavola. Ad ogni scoccare della mezzanotte mentre vaga da solo per la città francese Gil verrà trasportato negli anni venti dove conoscerà i suoi idoli: Hemingway, F.Scott e Zelda Fitzgerald, Picasso, Gertrude Stein, Dali, Buñuel e molti altri ancora in una serie d’incontri su cui si snoda un gioco di richiami e citazioni per palati fini. Come molti altri film di Allen, anche questa è un’opera che s’interroga sulla difficoltà di trovare un senso all’esistenza.

Se nel precedente “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni” ogni ambizione mondana era destinata a rivelarsi un’illusione e il destino, in supremo sberleffo a coloro che si prendono troppo sul serio, finiva per risparmiare solo l’anziana madre mossa da aspirazioni che tutti reputavano follia, questa volta Allen s’interroga sul senso del credere in un age d’or  dove tutte le cose erano migliori. L’età dell’oro è un sogno in grado di portarci in un luogo altro, dove gli angusti confini della nostra finitezza perdono di consistenza mentre ci specchiamo nei miti di quegli uomini e quelle donne che hanno saputo significare così tanto per chi li ha seguiti, da riuscire a sfuggire con le loro opere e la loro grandezza al destino mortale. Ma è veramente così? O ogni persona, compresi i nostri idoli, ha bisogno di fantasmi che lo aiutino a trovare senso e l’idea di epoca d’oro è  quindi sempre e comunque un sogno, un luogo altro dove rifugiarsi? Attraverso questo tema  la lezione ufficiale a cui giunge Midnight in Paris è che per superare la paura della morte non basta, come accadeva nel primo Allen, l’ironia  perché questa non riesce mai a spingere quella presenza fuori dal nostro campo visivo. Per riuscire in questa impresa abbiamo bisogno dell’amore, l’unica forza in grado di farci sentire la vita, anche solo per un istante, come qualcosa di eterno.

L’altro insegnamento, quello che si scorge fra le righe, è che c’è anche un’altra cosa che può aiutarci ed è la capacità di raccontare storie meravigliose, come fa con un ritmo inarrestabile nonostante i suoi 76 anni Woody Allen. Se la comicità è la presa di coscienza della realtà, la narrazione è l’atto con cui da Schilimazel l’autore e il protagonista, associazione ancora una volta non casuale, cambiano e con l’aiuto fondamentale della fortuna, altro tema tipicamente alleniano, riescono costruirsi una vita migliore anche se illusoria, come ogni altra vita possibile. In questo progetto assumono una grande importanza fattori come il luogo dove si vive, gli amici  che si frequentano e soprattutto le persone che si amano, tutti elementi non a caso centrali della poetica di Allen. Nel libro intervista al regista curato da Stig Björkman (ed. Minum Fax) Allen spiega come molta gente, compresi alcuni suoi amici non siano mai riusciti a capire come la vita non sia un film. Il film, spiega Woody, se ben scritto è decisamente migliore.

E qui nasce l’altra radice dell’opera alleniana, quella di cui parlavamo all’inizio, la capacità dì’intrattenere, di far compiere un’evasione, quel piacere artistico che salva la vita del documentarista interpretato da Allen in Crimini e Misfatti i cui istinti suicidi si placano guardando un film dei fratelli Marx, opera in grado di fargli comprendere la bellezza dell’esistenza più delle parole del filosofo su cui stava lavorando. E’ questo il punto in cui s’incontrano l’intrattenimento puro, spesso sottovalutato quando si parla di Allen, e le sue idee filosofiche in un cerchio che non potrebbe non chiudersi senza perdere il senso profondo del suo lavoro. Per un autore e un regista raccontare una storia è un atto di riappropriazione e per certi versi di negazione creativa delle asprezze delle contraddizioni della vita che suona come un affronto alle logiche del nichilismo triste, un’opposizione compiuta in nome dello spirito pratico di quel piccolo mondo degli ebrei di Brooklyn che non esiste più ma che all’orrore aveva sempre saputo rispondere con una battuta tagliente e tanto lavoro. Come se in fondo il nostro destino ultimo non ci riguardasse visto tutte le cose che abbiamo da fare, concetto brillantemente esposto nell’antologico joke alleniano “Non solo Dio non esiste, ma provate a trovare un idraulico nei weekend”.

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