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December 5, 2011

People I Know. Martha Jimenez Rosano: dal Messico, fino a qui

Anna Quinz

Lasciare l’enorme metropoli che è Città del Messico, per trasferirsi a Bressanone, può sembrare, ai più, un salto nel buio, e forse nel vuoto. Dalle strade affollate, alle dolci vallate altoatesine, il passo è lungo, ma non necessariamente più lungo della gamba che lo compie. Martha Jimenez Rosano questo lungo passo l’ha fatto, e non se ne è pentita. Nella cittadina sudtirolese la 30enne Martha vive e lavora come curatrice e promotrice culturale, è una giovanissima mamma e moglie del talentuoso fotografo Giovanni Melillo Kostner. E con sé, della terra d’origine, porta un caldo accento del sud, i colori morbidi di chi è nato non tra le montagne, ma in un altrove che pare lontanissimo, ma che in fondo, così lontano non è. E Martha, che per il suo lavoro è impegnata in progetti interculturali, di integrazione e di scambio, lo sa bene. Perché anche nel nostro piccolo Alto Adige, la multiculturalità, data non solo dal nostro originario dualismo, è una realtà, nuova e arricchente, con la quale Martha si confronta ogni giorni, con la curiosità e la passione di chi non si limita a vedere il mondo fatto di nazionalità, fedi, lingue o terre di origine, ma di persone.

Dal Messico all’Alto Adige. Cosa le dà in più questa terra, e cosa le toglie?
Sono arrivata qui nel 2005, la laurea in Messico, con l’obiettivo di aprirmi a nuovi orizzonti. Questo era un territorio che volevo capire, che volevo mi accogliesse, al quale volevo offrire qualcosa. Senz’altro, questa terra è per me aria fresca: uno scenario di confronto continuo con la natura e con le varie culture del mondo presenti in un territorio già storicamente multiculturale. Questo mi fa riflettere sulla natura dell’uomo e sulla relazione natura-cultura-innovazione che ci definisce come specie. Da un lato, vivere qui è per me ispirazione, dall’altro, è distanza. Vivo fra due mondi, il primo, quello d’origine, lo vivo in modo ellittico, mediato da internet, dal postino e da chi viene a trovarmi. Certamente, mi vengono a mancare tanti elementi della mia cultura, quelle che erano le mie abitudini e atmosfere.

Con il suo lavoro si relaziona spesso con i “nuovi altoatesini”. Come vivono, secondo lei, l’abitare qui?
Per tante persone d’origine straniera abitare in Alto Adige è un vero paradiso se considerato dal punto di vista delle opportunità di vita: c’è lavoro, ci sono relazioni sociali fra persone di gruppi diversi, in alcuni casi ci sono anche comunità di riferimento su cui appoggiarsi socialmente e culturalmente, si può scegliere fra un’educazione in lingua tedesca o italiana, si vive con sicurezza e la qualità dell’ambiente e dei servizi pubblici è eccellente. Le difficoltà si percepiscono quando si considerano le stesse opportunità di vita a lungo termine. Allora emerge il problema della cittadinanza e dell’appartenenza a una nazione, stato o provincia, e quindi la questione dei diritti come cittadini.

Una storia di “immigrazione” che l’ha particolarmente colpita?
Penso alla storia di Sumeja Omerovic, diciottenne curiosa e attiva, d’origine bosniaca arrivata in Alto Adige, quando aveva due anni per fuggire dalla guerra nel suo paese. Ora vive a Chiusa e fin da piccola ha frequentato le scuole in lingua tedesca. Oltre a bosniaco, tedesco e italiano, parla anche l’inglese essendo una splendida multilingue. Quest’anno, nell’ambito del progetto interculturale “Open City Museum” per il Museo Civico di Chiusa e la sua comunità, ho avuto il piacere di conoscerla e di collaborare con lei. Una delle visite guidate in lingua straniera che ha tenuto al Museo l’ha particolarmente colpita. È stata per lei la prima occasione per proporre qualcosa di proprio alle persone della sua comunità. Si trattava di raccontare la storia di un luogo che l’ha ospitata per quasi tutta la vita, che però fino a quel momento non aveva sentito come suo. Si era sentita sempre nella condizione di dover emulare lo stile di vita degli abitanti originari del luogo, senza avere mai l’opportunità di guardare davvero dentro di sé e vedere che si possono trovare maniere di sentire come proprio un luogo nuovo, che l’essere diverso può essere visto come una risorsa per il cambiamento, e non solo come una difficoltà o uno svantaggio.

Sempre grazie al suo punto di vista privilegiato, come pensa sarà l’Alto Adige di domani?
Sarà sempre di più scenario di diverse culture e fedi, un territorio multiculturale che dovrà fare i conti con la diversità in modo piuttosto propositivo e includente. Gli altoatesini dovranno accettare che l’identità di cui sono tanto orgogliosi, non è mai stata condizione assoluta e non lo sarà mai; dovranno mettersi il cuore in pace e, anzi, attivarsi pensando che la crisi d’identità non è causata dagli immigrati che vivono accanto a loro, ma è conseguenza di una serie di trasformazioni che sono avvenute su ampia scala nel mondo e su cui non si possono fare passi indietro. Confido nell’iniziativa dei giovani, che sono i più colpiti e coinvolti in tutto questo e che sempre meno stanno ad aspettare che gli si dica cosa e come fare.

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