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November 29, 2011

Fabio Cavallucci: “In Italia, arte controllata dalla politica”

Marco Bassetti

Mercoledì, ultimo appuntamento per “La Classe dell’arte” (Centro Trevi, ore 20.45). Tra i banchi di scuola un gruppo di importanti direttori museali attivi in istituzioni diverse per geografia, patrimonio e missione. Le voci dei relatori saranno l’occasione per  confrontare esperienze diverse tra istituzioni  italiane e straniere ma, soprattutto, per riflettere sul ruolo dei musei quali attivatori di sviluppo culturale, sociale ed economico, e riferimenti per il proprio territorio all’interno di una dinamica di appartenenza, così come di ricerca e di sviluppo internazionale. Tra i personaggi chiamati da Paola Tognon, curatrice della rassegna, a raccontare la propria visione, c’è Fabio Cavallucci. Dal 2001 al 2008 direttore della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, direttore artistico della XIV Biennale Internazionale di Scultura di Carrara nel 2009, coordinatore di Manifesta 7 in Trentino Alto Adige e dal dicembre 2006 membro del board della Fondazione internazionale di Manifesta, Cavallucci ricopre dal 2010 il ruolo di Direttore presso il Centro per l’Arte Contemporanea Zamek Ujazdowski di Varsavia: primo direttore non polacco di uno dei ventotto istituti culturali nazionali polacchi. Franz lo ha intervistato.

L’obiettivo della rassegna è quello di promuovere una riflessione sui meccanismi dell’attuale sistema culturale, affrontato da personalità afferenti a diversi ambiti del sistema dell’arte. Un approccio multi-disciplinare, aperto a tutti, non elitario, come giudica questa operazione?

Discutere è sempre un fatto positivo, poi dipende da cosa si dice. Ampliare i punti di vista è senz’altro un ottimo presupposto per interpretare la contemporaneità.

Per prima cosa, mi può chiarire cosa si deve intendere oggi – 2011 – per “arte”? Possiamo demarcare un campo specifico?

Io risponderei nello stesso modo in cui Luciano Anceschi definiva la poesia: l’arte è tutto ciò che è ed è stato considerato arte. E’ una risposta a posteriori, che non annuncia nulla per il futuro, non tenta previsioni. Ma è l’unica risposta certa. Perché, per il resto, l’arte ci ha abituato a cambiare, oltre ai contenuti, anche il suo linguaggio. Era arte quella di Fidia che ritraeva dei ed eroi sul Partenone, lo era quella che insegnava ai cristiani le storie del Vecchio e Nuovo Testamento nelle chiese. Lo era quella che arredava i palazzi aristocratici del Settecento, e quella con cui si ritraeva la borgesia ottocentesca, o gli oggetti che Duchamp ha portato sulla scena del museo. Forse oggi l’arte non è nemmeno più, o almeno non solo, nel museo. Magari si trova a scorrere tra le immagini di YouTube, o negli scambi di battute tra amici di Facebook.

Durante la serata ci si chiederà se “L’arte è un patrimonio collettivo o il privilegio di un paese evoluto abitato da persone fortunate?”. Lei conosce da vicino diverse situazioni in giro per il mondo, che idea si è fatto a tale proposito? L’arte riesce oggi ad essere un fenomeno che coinvolge da vicino la vita delle persone, un vero patrimonio condiviso, un autentico campo di riflessione, o rischia sempre più di riguardare una nicchia chiusa e autoreferenziale senza possibilità di incidere sul reale?

Mi piace pensare, come Edison, che prima o poi quella lampadina si accenderà. Ma Edison dovette sperimentare più di seimila volte l’accensione del filo di tungsteno: più sottile, più grosso, più lungo, più elettricità, e così via. Così credo sia anche oggi per l’arte. Dobbiamo ritrovare un modo per far colloquiare l’arte con il pubblico, perché di un’arte solo per addetti ai lavori, magari con un alto valore di mercato, non interessa più nulla a nessuno. Per farlo andiamo incontro a numerosi fallimenti, ma guai a fermarsi: la strada del dialogo è giusta, prima o poi la lampadina si accenderà. Poi, ovviamente, ci sono luoghi o paesi più fortunati. Uno di questi è la Polonia, dove per una serie di strane coincidenze mi trovo a lavorare. La Polonia è in questo momento il paese europeo che più scommette sull’arte e la cultura. Perché? Intanto per ragioni storiche: la cultura rappresenta lo strumento fondamentale per la creazione dell’identità di questo popolo che è sempre storicamente stato diviso e martoriato. Per questo c’è un livello culturale altissimo, un’altissima qualità di produzione artistica, e una larga attenzione da parte del pubblico. Da ciò consegue l’interesse del mondo politico, che ovviamente non è diverso da quello di altre nazioni, ma dal momento che vede l’interesse della gente è pronto a investire nella cultura. Lo scorso maggio il primo ministro Donald Tusk ha firmato con Obywatele Kultury, l’associazione dei Cittadini per la Cultura, un patto per portare all’1% il budget annuo della cultura nell’arco di quattro anni. Si trattava di una promessa elettorale, giacché poi Tusk si è candidato alle elezioni di ottobre, del resto vincendole. Ma in quale altro paese europeo un politico scommetterebbe sulla cultura per avere voti? Se non ricordo male alle ultime lezioni nazionali italiane la parola “cultura” era cancellata dal vocabolario sia di destra che di sinistra.

In questa prospettiva, il caso Manifesta (di cui lei è stato coordinatore) ci può dare qualche indicazione?

Manifesta è stato uno dei tentativi di accendere la lampadina. A suo modo non è stato certo il peggiore. Piuttosto è capitata in un momento di tensione tra l’ambito politico e il mondo della cultura: in Alto Adige per l’apertura e le polemiche su Museion, in Trentino per la crisi della Galleria Civica. In questi casi, comunque, i frutti vanno analizzati negli anni. Ora forse sarebbe il tempo di fare un’analisi più meditata.

In questo discorso si inserisce la questione del rapporto tra arte ed istituzioni culturali, tra arte e potere. Rapporto problematico che lei ha vissuto sulla sua pelle. Lei, che ora vive e lavora all’estero, può forse inquadrare meglio, con uno sguardo distaccato, la situazione italiana… Limiti, criticità, prospettive?

Non è che esista una situazione italiana identica ovunque, ci sono differenze regionali e cittadine. Quello che in genere accade in Italia, comunque, è che la politica, dopo anni di disinteresse democristiano per la cultura, dopo averne cominciato ad apprezzare il valore come elemento di comunicazione (pensiamo a Craxi e al socialismo), ha avviato una fase in cui ha sempre più potenziato il potere di controllo. E qui non conta tanto la destra o la sinistra, è un fatto generale, determinato dalla paura di perdere consenso e dal’invecchiamento generale della popolazione, che tende ad essere più tradizionalista che avanguardista. Il controllo, poi, si attua bene con persone che sono capaci di mostrarsi rassicuranti, con la garanzia dell’affiliazione politica, o semplicemente di quella amicale. Tutto qua, né più né meno di quanto avviene in altri settori, quali la televisione di stato o le aziende partecipate.

In una situazione di crisi profonda che coinvolge alle radici l’Occidente nel suo complesso, le istituzioni culturali possono contribuire concretamente a rilanciare lo sviluppo economico e sociale? Se sì, come? 

E’ sempre la questione di riuscire ad accendere quella lampadina… L’arte può interpretare la società, può capire in anticipo dove il mondo sta andando (l’ha sempre fatto in passato), sono anche convinto che possa contribuire a cambiarlo, ma per farlo deve essere in grado di collocarsi nei gangli vitali, deve toccare gli aspetti più vivi dell’organismo sociale. Quanto all’economia, è un’interpretazione condizionata da una visione economicistica del mondo quella che fa pensare che la cultura e l’arte debbano avere un risvolto economico diretto o indiretto. In realtà ciò che osserviamo oggi è che l’economia ha fallito, che il sistema capitalistico è giunto al termine, e dunque sarebbe un errore persistere nell’interpretare l’arte come uno strumento di sviluppo in senso tradizionale. Forse c’e’ bisogno di spiritualità, e forse l’arte può essere una porta aperta per un altro mondo. Qui vedremo la sua capacità di cambiare i punti di vista.

Ci vuole raccontare brevemente, con l’obiettività che la distanza temporale forse permette, la vicenda che l’ha visto protagonista nella vicina Trento, quando era Direttore della Galleria civica?

Che dire? Potrebbe essere una storia molto lunga. Oppure la si potrebbe riassumere nel fatto che quando cambia (anche all’interno dello stesso partito) un nodo di potere politico, ad esempio un assessore, cambia anche il resto, ciò che da lui o dai lei dipende. Cosa normale e comprensibile, un assessore ha il diritto di farsi una squadra sua, di scegliere le persone con cui vuole lavorare. Che poi quell’assessore sia la persona giusta per guidare la cultura trentina è altra questione, ma quando un sindaco eletto decide che è così, bisogna accettarlo. Da un altro punto di vista, però – e i recenti sviluppi della situazione lo dimostrano – la crisi della Galleria Civica è di più vasta portata. È legata a quella visione economicistica di cui si parlava, per cui l’arte soddisfa bisogni non materiali, non facilmente identificabili con un valore economico. La richiesta politica che viene fatta al Mart, ad esempio, è di rispondere all’ingente spesa fatta dall’ente pubblico con una larga presenza di visitatori. La politica culturale del Mart, infatti, è inevitabilmente condizionata da questo aspetto, e il museo è spinto verso la divulgazione più che la ricerca. La Galleria Civica, anche per differenziarsi dal Mart, in un territorio così piccolo come il Trentino, ha un carattere di laboratorio di ricerca. Credo che in qualche modo durante la mia gestione si sia riusciti a rispondere bene anche alla richiesta di numeri, ma l’ambito politico non può finalmente riconoscere come sufficienti 20/30.000 presenze all’anno, paragonandole con i mercatini di Natale. Ora poi che siamo di fronte a una crisi economica di vastissima portata, è difficile salvare questi tipi di istituzione. Purtroppo occorreva cercare di trovare soluzioni prima che la situazione precipitasse. Penso, ad esempio, ad un master per arte e nuove tecnologie, che poteva avvalersi della struttura e del know how della Galleria Civica e allo stesso tempo poteva diventare un supporto in termini economici. Ma tutto questo non è successo.

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