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November 29, 2011

People I Know. Andrea Pedevilla, quando la scuola è una bella scuola

Anna Quinz

A una decina d’anni almeno dal proprio diploma, ritornare in una scuola fa un certo effetto. Per non parlare dell’entrare nell’ufficio del preside. La sensazione di aver combinato qualcosa, di doversi preparare a una lavata di capo assale quasi in automatico. Ma se poi il preside che ci si trova di fronte è Andrea Pedevilla, l’ansia da studente evapora automaticamente. Andrea è il giovane neo preside dello storico Liceo Classico Giosuè Carducci, e dell’immagine stereotipata del preside, non ha poi molto. Professore da più di due decenni, Andrea mantiene quella freschezza, nell’aspetto e nell’eloquio, di chi per una vita ha lavorato gomito a gomito con i giovani, cercando di capirli, guidarli, affiancarli in quel percorso così delicato e fondamentale che è la scuola. Andrea si è sempre messo in cattedra con il pieno rispetto verso i propri alunni, con la voglia mai esaurita di trasmettere il proprio sapere, con la capacità di assecondare i tempi e i cambiamenti. E così, chi è stato suo allievo, lo ricorda con stima, chi non lo è stato, se ne rammarica.
Quando ha iniziato a insegnare e perché? Com’è stato il passaggio da un lato all’altro della cattedra?
Insegnare era il mio obiettivo, ho frequentato l’università pensando a questa professione, dunque lo sconfinamento di ruolo non è stato strano né traumatico. Mi piaceva insegnare, pensavo fin dall’inizio di avere qualcosa da dire. E poi ho tenuto sempre ben a mente com’ero io a 18 anni, e questo mi ha aiutato a relazionarmi con i ragazzi. E in 26 anni di carriera, non c’è mai stato un giorno in cui io abbia pensato che avrei fatto meglio a fare qualcos’altro.
Che studente era Andrea?
Fino ad un certo punto stato un bravo studente. Poi, glisserei sull’argomento…
Da professore a preside. Un passaggio importante…
La cattedra e i banchi mi mancano. Sto ancora “elaborando il lutto” dell’essere preside, allora appena posso mi infilo in qualche classe e approfitto di ogni occasione per tornare a relazionarmi con i ragazzi.
Un tema molto caro al mondo adulto, è quello dei giovani che non sono più come una volta. Lei che coi giovani ci lavora quotidianamente da tanto tempo, che ne pensa?
I giovani cambiano, è inevitabile. Forse oggi rispetto a una volta è più difficile lavorare sul programma, ma questo non significa che i ragazzi siano cambiati in peggio. Non sono mai riuscito ad accettare questo principio, penso che sarebbe più grave se il cambiamento non ci fosse. In quel caso saremmo una sub-umanità. Forse in realtà siamo noi, la scuola, ad avere difficoltà di mutamento e di adattamento ai tempi. I giovani stanno al passo, sono sempre ricchi, e possono insegnare a noi com’è il mondo di oggi. Certo oggi i giovani non hanno vita ed esempi facili. Ma il problema non è, ad esempio, la televisione in sé. È “questa” televisione, questo clima politico, la volgarità dilagante. La scuola ha il compito di mediare, di fare da argine.
Quali gli obiettivi di un buon insegnante, secondo lei?
Io credo sia veramente importante impegnarsi nel tentativo di costruire il gusto dei ragazzi. Ma anche creare in loro la voglia di fare bene le cose, di riconoscere e apprezzare la bellezza. E sviluppare la loro sensibilità, il loro stile.
Quali i lati più affascinanti di questa professione?
Insegnare permette di essere adulto, ma anche un 18enne che ha voglia di farsi prendere dagli incanti e dalle prospettive della giovinezza. È un’esperienza totalizzante, che va ben oltre le ore passate in classe. Ad esempio, quando leggi un libro, non lo leggi semplicemente, ma pensi sempre a come potresti poi raccontarlo ai ragazzi, come potresti attraverso questo libro, a stimolare nuove prospettive interpretative.
Esperienze vissute che l’hanno fatta riflettere sul senso della scuola e della sua realtà attuale?
Mi è capitato che alcuni studenti mi chiamassero papà. È una cosa strana, ma significativa. La scuola deve essere una società educante, ma non deve vivere solo di deleghe, né sostituirsi alla sfera familiare. L’insegnante è una figura importante nella formazione di un individuo, ma non può rappresentare più di quel che è.
Gli studenti la chiamano papà, ma lei papà lo è davvero, di quattro figli, due all’università e due ancora piccoli. Che padre è il professor Pedevilla?
Con il più grande, studente di filosofia, ho sempre condiviso molto, ad esempio l’amore per la cucina. Ora mi telefona per condividere ricette o chiedermi come si fa la marmellata! Mia figlia invece era nella scuola in cui lavoro, ma non ho mai vissuto con lei l’interferenza tra il professore e il papà. Forse perché questa interferenza, tra professionista e persona, non esiste. Con i più piccoli è tutta un’altra storia. La paternità tardiva forse non porta più quel senso travolgente di novità, ma crea quello sguardo speciale di chi dare davvero tutto quello che ha. C’è una consapevolezza diversa, unita al senso di caducità, ma soprattutto la possibilità di essere più sereno nei confronti dei sentimenti. In questo modo, non si invecchia mai. Un po’ come lavorando nella scuola!

Pubblicato su “Corriere dell’Alto Adige” del 20 novembre 2011

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