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November 7, 2011

People I Know. Raffaela Vanzetta e i colori delle donne

Anna Quinz

La prima cosa che si pensa, incontrando Raffaela Vanzetta, è che è una donna colorata. Nel suo modo di vestirsi, fresco e frizzante, mai istituzionale, mai serio, sempre pieno di fantasie variopinte e allegre. E colorata nel suo modo di muoversi nelle cose, nel mondo, nel lavoro. Sempre con un sorriso sulle labbra, sempre combattiva, sempre piena di energia ed entusiasmo, data dall’essere una donna che sa ciò che vuole, e che fa ciò in cui crede. Raffaela, bolzanina perfettamente bilingue, lavora all’Infes, e non fa un lavoro facile. Si occupa infatti di disturbi alimentari e così ogni giorno si confronta con le giovani ragazze che saranno le donne di domani. E lei, donna di oggi, o meglio, esempio perfetto di come una donna oggi dovrebbe essere, porta avanti ogni giorno, nel suo lavoro tanto quanto nel privato, la sua battaglia in rosa.

Raffaela, quale il tuo background?

Sono cresciuta a Bolzano, in una famiglia italiana che nel vortice degli anni ’70 ha deciso di mandarmi alle scuole tedesche. All’inizio ho odiato questa condizione, che però poi ha segnato il mio destino e mi ha permesso oggi di poter switchare liberamente tra le due lingue.

Hai vissuto tanti anni all’estero. Quando e perché ha deciso di tornare a vivere a Bolzano?

Quando vivevo a Vienna, mi sono accorta che a un certo punto i miei figli stavano crescendo come “viennesi”. Con il mio ex marito, che è austriaco, ci siamo chiesti se era questo che volevamo, e dato che a lui la doppia cultura bolzanina era sempre piaciuta, anche come opportunità per i nostri figli, abbiamo deciso di tornare nella mia terra. Essere stata via per tanto tempo mi ha dato la giusta prospettiva e il giusto distacco per vivere bene a Bolzano, città che puoi apprezzare e capire se la vedi per un po’ da fuori. Restando sempre qui si rischia di stare troppo a solo a guardarsi l’ombelico. Certo che ambientarsi nuovamente non è stato facile, e poi quando vivi altrove, ti rimane sempre addosso la sensazione che qualcosa ti manca. A Vienna ho costruito una vita e dei legami importanti, di cui sento nostalgia, e anche se ora sono di nuovo “ambientata” qui, non vorrei mai vivere senza aver fatto quell’esperienza.

Lavori con le donne, con ragazze giovani che hanno problemi di relazione con se stesse. Dunque l’essere donna, è ingrediente fondamentale della tua professione. Come ci sei arrivata?

La mia era una famiglia cattolica, io ero sempre confrontata con un modello di donna “umile e disponibile”, cosa che, nel tempo, mi ha allontanata dalla religione, ma avvicinata al femminismo. Anche gli studi in pedagogia e in psicoterapia mi hanno permesso di mantenere un legame con questo tema, oltre che, prima di tutto, l’interesse e il coinvolgimento personale.

Ma nella società contemporanea, dopo tante battaglie, a volte vinte, a volte perse, quanto ha ancora senso parlare di femminismo?

Ha senso più che mai. Le giovani ragazze vogliono sentirsi allo stesso piano dei loro compagni maschi, ma in realtà è diminuita la consapevolezza della propria femminilità ci sono ancora molte cose da dire e da fare in relazione al ruolo della donna nella società. Quello che emerge oggi, non è certo il ruolo che desidero per mia figlia. Oggi essere una giovane donna è più difficile che ai miei tempi. Allora avevamo tanti modelli di riferimento, e pertanto la libertà di scegliere quello più vicino a noi stesse. Oggi il modello è unico e univoco, l’omologazione è un credo assoluto e dunque anche la libertà individuale è minata. Ci sarebbe bisogno di più voglia di ribellione!

Cosa significa per te essere donna? Come esprimi la tua femminilità? Lavorando con giovani ragazze, che tipo di esempio vorrest dare loro?

Noi donne fatichiamo ancora a essere noi stesse quando ci sono gli uomini intorno. Quando siamo solo tra noi, parliamo, ci muoviamo, in modo diverso. Io nel mio piccolo, cerco di essere un buon esempio per le giovani ragazze con cui lavoro e per i miei figli. È stato difficile scegliere di essere una madre che lavora full time, ma questo mi ha permesso di dimostrare che sono una donna indipendente, e spero che questo sforzo venga apprezzato e imitato. E poi credo sia importante, dare un’immagine di femminilità chiara e convinta, non voglio sembrare un uomo. Non lo sono, sono una donna, con tutto quel che comporta, ma una donna consapevole, libera, autonoma.

Chi è stata, in questo processo di crescita e di consapevolezza, il tuo idolo o la tua ispiratrice?

Quando ero giovane, in famiglia, mi si presentava un solo modello di femminilità. Poi mi sono immersa nelle “letture femminili”, e tutto è cambiato. Simone de Beauvoire è stato il mio esempio, mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto capire che ci sono altri modi per essere e per dimostrarsi donne. Questa libertà mi affascinava, ma mi faceva anche paura. Paura della solitudine. Nel pensiero comune, infatti, una donna per non essere sola doveva avere un uomo accanto. Poi sono cresciuta, e ho capito.

Pubblicato su “Corriere dell’Alto Adige” il 30 ottobre 2011

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