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October 25, 2011

Abruzzese: “La creatività necessaria allo sviluppo”

Marco Bassetti

Mercoledì, nel corso del terzo appuntamento de “La Classe dell’arte” (Centro Trevi, ore 20.45), quattro esponenti del settore dibatteranno sul tema “L’arte è un linguaggio universale?”, nell’ambito di un dialogo trasversale, multidisciplinare e aperto a tutti. Tra i personaggi chiamati da Paola Tognon, curatrice della rassegna, a raccontare la propria visione, c’è Alberto Abruzzese, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Direttore dell’Istituto di comunicazione presso lo IULM di Milano, saggista prolifico e particolarmente eclettico. Nei suoi scritti, agli anni ’70 ad oggi, si è occupato di letteratura, cinema, sociologia della comunicazione e della pubblicità, storia sociale dell’industria culturale e delle innovazioni tecnologiche, media e, naturalmente, di arte. Oltre ad essere uno dei più raffinati studiosi dei processi comunicativi presenti oggi in Italia, è ideatore e consulente di eventi, organizzatore di mostre e autore radio-televisivo. Uno che conosce da dentro,  quanto pochi altri, i meccanismi di produzione, diffusione e fruizione culturale. Lo abbiamo intervistato.

L’obiettivo della rassegna è quello di promuovere una riflessione sui meccanismi dell’attuale sistema culturale, affrontato da personalità afferenti a diversi ambiti del sistema dell’arte. Un approccio multi-disciplinare, aperto a tutti, non elitario, come giudica questa operazione?

Il titolo “La classe dell’arte” suggerisce l’intenzione della curatrice Paola Tognon di disarticolare il discorso sull’arte in varie direzioni: 1) sociale: il rapporto tra classi sociali di diverso censo, cultura, educazione, ideologia, gusto, stile ruolo ecc ; 2) estetica: il sistema classificatorio delle arti (generi, stili, periodizzazioni); le arti in rapporto alle estetiche (canoni, stile e gusto della civiltà classica e della civiltà moderna); il classicismo contrapposto a barocco e moderno ecc; il classismo in rapporto alle differenze gerarchiche tra arte alta e arte triviale, arte e artigianato, arte e industria culturale, cultua di massa, tecnologia; tra opera e serialità; tra tradizione umanistica e avanguardie storiche; tra cuilture della produzione e cultura del consumo; 3) scolastica e formativa: l’aula in cui si insegna e si discute e si forma al gusto per l’arte e alla competenza sulla sua storia; la piazze e poi il cinema e poi la tv e infine la rete che hanno via via soppiantato la funzione di elaborazione e trasmissione del fare artistico della corte, della chiesa, dei gabinetti naturali, dello studio d’artista, del salone, delle esposizioni, dei musei,  delle aule universitarie….

La prima domanda che verrà posta nel corso dell’incontro di mercoledì è “L’arte è un linguaggio universale capace di tessere un racconto oppure si tratta semplicemente di un lessico per pochi?”. Per prima cosa, mi può chiarire cosa si deve intendere oggi – 2011 – per “arte”? Possiamo demarcare un campo specifico?

Credo che sia fondamentale intendere per arte non – come ancora accade – qualcosa di vago e tuttavia  di automaticamente denso di aura spirituale, prestigio e autorità sociali, ma un sistema molto complesso e diversificato che ha avuto la sua genesi nella vicenda che lega tra loro il Rinascimento, con la scoperta e valorizzazione delle grandi opere del mondo antico, e la modernizzazione della prima rivoluzione industriale, quindi la nascita delle nazioni, la società dello spettacolo, il culto della tradizione, della memoria e del monumento, l’ideologia della ostentazione pubblica. Questo stesso processo produce poi una progressiva divaricazione tra la tradizione delle arti e l’industria culturale di massa (fotografia, cinema, produzione in serie, art nouveau, liberty ecc): mentre l’una si irrigidisce l’altra è dinamica e sempre più aperta ad ogni forma di oggetto e di consumo, legata alle mode e allo sviluppo tecnologico. Infine questa divaricazione progressiva ha un punto di straordinario e traumatico incrocio: sone le avanguardie del futurismo, dadaismo, surrealismo che attingono all’immaginario collettivo dei prodotti dell’industria culturale, recuperandoli all’interno di una estetica antitradizionale molto provocatoria nei confronti della tradizione estetica così come dei vasti pubblici popolari. Ora il sistema dell’arte – sensibile a strategie di mercato che riguardano un pubblico molto abbiente ma non necessariamente colto, ma sensibile anche alla tradizione critica e allo sfruttamento dei linguaggi espressivi a fini sociali (che bene o male costituiscono altri target di pubblico) – riguarda un campo tanto disomogeneo da non potere essere raccolto in una sola immagine e soggettività. La distinzione a mio parere più forte è tuttavia quella tra forme d’arte che restano chiuse nei canoni e nelle funzioni di consenso e persuasione, tipiche della tradizione estetica connessa all’ideologia dei legami sociali o dello spirito religioso, e forme d’arte più vicine allo spirito irriducibile e antiestetico del Sacro.

Poi, con l’espressione “linguaggio universale” riusciamo effettivamente ad inquadrare una potenzialità propria del linguaggio artistico? In cosa consiste?

I linguaggi espressivi ottengono il risultato di colpire l’immaginazione, la sensibilità, la mentalità, i sensi, le passioni del singolo individuo per mezzo di apposite tecniche. A seconda delle situazioni in cui si produce e consuma un oggetto dotato di forti intenzioni e potere comunicativo – a seconda dei periodi storici, dei territori geopolitici, delle differenze di genere, della composizione sociale dei luoghi, dei modelli di organizzazione delle istituzioni e dell’economia, delle forme di govero, dei conflitti ecc – la potenza del messaggio può tendere a condensarsi nella dimensione di una comunità coesa, oppure può tendere a dividersi in persone, ceti, corpi, passioni tra loro diverse e persino contrapposte. Nel primo caso l’universale rischia spesso di coincidere con una ambizione totalitaria, nel secondo caso l’universale può significare semplicemente che il messaggio corrisponde alla universalità delle differenze affettive che convivono nella vita quotidiana di ciascuno. La prima tende all’uno; l’altra al molteplice. Ovviamente non è così semplice. I due movimenti sono spesso, ed anzi quasi sempre, tra loro intrecciati.

La seconda domanda che verrà posta nel corso dell’incontro è “L’arte è motore di innovazione e di sviluppo?”. In questa particolare stagione economico-politica, in cui sentiamo molto parlare (spesso a vuoto) di ricerca e innovazione, l’arte viene raramente contemplata come “motore di sviluppo”. Qual è la sua posizione in merito? Possiamo riconoscere agli artisti un ruolo, un compito, una funzione specifica in questo ambito?

Se usciamo dalla definizione scolastica di arte e dall’idea di chiuderla in un contesto estetico storicamente e socialmente chiuso in sé, elitario o di massa che sia, sappiamo bene che la creatività costituisce una dote necessaria allo sviluppo dei modi di produrre e consumare la realtà. La creatività è la dote di combinare insieme cose, simboli, figure, racconti in modi inattesi, spiazzanti e per ciò stesso produttivi di nuove relazioni. La serialità dei prodotti dell’industria culturale – dal design alla serie televisive – funziona quando, alla ripetizione e imitazione, si aggiunge un alto livello di innovazione e originalità. Quando insieme all’omogeneo si introduce il disomogeneo, all’omologazione la diversificazione, al senso comune il perturbante. Non è detto che la figura dell’artista possa essere schiacciata su quella del creativo ma neppure quella del creativo sul lavoro dell’artista. Il creativo ha uno scopo adeguato alla complessità delle funzioni che è chiamato ad assolvere per innovare un processo economico-politico, l’artista spesso fa semplicemente la stessa cosa dentro i confini – non sempre larghi e aperti – dei settori in cui si divide il mercato delle arti.

Altro tema molto dibattuto in questa stagione è quello della crisi della cultura. Circoscrivendo il discorso all’Italia, come inquadra questa questione e quale origine invididua a tale fenomeno?

La crisi della cultura è in genere l’espressione di disagio che proviene da una serie di ceti e corporazioni legate ai vecchi regimi socio-culturali (tanto nel campo dei linguaggi d’elite quanto in quelli collettivi, nei media – cinema e televisione) che più si sono modellati sulle culture (forme, contenuti, tecniche) della scrittura, dello spettacolo e delle arti figurative tradizionali. Al contrario a me sembra che emerga sempre più la necessità di trovare i contenuti adatti – di cui le reti potrebbero essere un potente veicolo – per mettere in crisi i valori dominanti nella cultura occidentale, valori che sin ad oggi hanno riguardato tutte le forze in campo dello sviluppo moderno. Aggiungo che il tema della crisi della nostra cultura (nel senso che ho appena detto) riguarda la situazione che viviamo in assenza di una classe dirigente e degli strumenti di ricerca e formazione necessari a produrla, ma bisogna evitare di considerarla un caso esclusivamente italia. E’ il sistema mondo che non riesce più a sostenersi sui pilastri forniti dalla civilizzazione moderna.

In questo dibattito, come valuta la diffusione di massa delle nuove tecnologie digitali? Limiti, potenzialità, prospettive?

La rivoluzione praticata dai linguaggi digitali – le modalità di reti interattive, multimediali, glocal – è clamorosa sul piano socioantropologico, questo naturalmente non significa che il concetto di rivoluzione o meglio di mutazione della vita quotidiana delle persone (il computer è ancora tendenzialmente d’elite ma la telefonia mobile è assai più incarnata in pratiche decentrate, dal basso, sensoriali) possa essere confuso con il significato moderno di rivoluzione come ribaltamento dei rapporti di potere.

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