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October 14, 2011

Ivan Marignoni: die Stadt als Schachtel

Kunigunde Weissenegger
Anna Quinz

Austauschbarkeit und Anonymität dominieren die Fotoarbeiten von Ivan Marignoni, der heute Abend um 19.00 Uhr in der Galerie foto forum seine Ausstellung The Box eröffnet. Das Spiel mit der Wiedererkennung und Nichterkennung von Orten ist bewusst so eingesetzt, dass eine Identifizierung der fotografierten Städte, Landschaften und Menschen erschwert wird. Der gewählte Standpunkt des Objektivs klammert dabei Elemente der Zuschreibung im Motiv aus und verleiht dem Ort des Geschehens Beliebigkeit, Entfremdung und eine gewollt szenografische Wirkung. Das endlose Wiederholen gleichartiger Elemente verleiht den Fotoarbeiten zusätzlich den Aspekt von Kontinuität und setzt diesen in Beziehung zum Rhythmus der Werkhängung.

Die Schärfen und Unschärfen in Ivan Marignonis Fotografien lösen den urbanen Raum in Gegensätzlichkeit auf: Stadtperspektiven changieren zwischen konkreter und unkonkreter Darstellung, zwischen Realität und Fiktion. The Box bietet einen Einblick in das jüngere Schaffen des Fotokünstlers und legt sein Interesse für den urbanen Raum und seinen Bewohnern offen. Der Ausstellungstitel verweist auf Marignonis Verständnis von Urbanität als Konstruktion, als Container, als Schachtel – mit oder ohne Menschen. Das Urbane wird somit auch zu dem Raum, der für die Anwesenheit oder Abwesenheit des Menschen steht. Die Ausstellung unternimmt den Versuch, das Innen des Ausstellungsraumes und das Außen des Stadtraumes in Beziehung zu setzen und die Doppelfunktion eines jeden Raumes in seiner Nutzbarmachung und ästhetischen Inszenierung zu hinterfragen.

Ivan Marignoni ist 1977 in Bozen geboren. Lebt und arbeitet in Berlin. Zwischen 2000 und 2002 besuchte er die Schule für Fotografie und Optik in Hall in Tirol (A). Seit 2003 arbeitet er als Werbe- und Architekturfotograf und widmet sich parallel dazu der künstlerischen Tätigkeit.

Anna Quinz intervista Ivan Marignoni

Intervistare un amico può essere difficile. Perché poi si finisce più che altro a chiacchierare più che a instaurare il tipico rapporto intervistato/intervistante. Ma è anche bello, proprio perché non si instaura questo rapporto formale, ma ci si perde in confidenze e si arriva ad un livello di comunicazione – e di rivelazioni – che un normale intervistante non raggiungerebbe mai con un intervistato. Così è stato intervistando – o tentando di intervistare – Ivan Marignoni, che appunto più che un intervistato è un amico. Davanti ad una birra e un veneziano con Campari, ci perdiamo in chiacchiere, sul suo lavoro artistico certo, ma poi divaghiamo, chiacchieriamo e parliamo anche d’altro. Ma è così, dalla casualità, che escono le cose – e le interviste – migliori. Cerco però di condensare in un “normale” formato domanda/risposta la nostra conversazione, per dovere di cronaca e per semplificare il lavoro del terzo soggetto sovrano di ogni intervista, il lettore.

Cos’è, com’è, la tua città?

La città è innanzitutto un luogo affascinante, ma è anche un luogo in cui tutti ci affanniamo, corriamo, inseguiamo cose, persone, orari, regole, abitudini. Con il mio lavoro cerco non tanto di demonizzare questi aspetti metropolitani, ma di guardarli ed osservarli in modo critico. Nella città tutto è un endlose Wiederholung. Siamo tutti inseriti, volenti o nolenti in una serie di meccanismi costanti che ci avviluppano: ogni giorno passiamo davanti allo stesso bar, prendiamo lo stesso mezzo, incrociamo le stesse persone che fanno le stesse nostre strade, e poi apriamo le stesse porte, le richiudiamo. Un loop costante, un cerchio che ogni mattina si apre e ogni sera si chiude, sempre uguale. Non è necessariamente una schiavitù, è semplicemente il vivere di ognuno di noi. Mi affascina ed interessa, da fotografo, notare e testimoniare questi riti del quotidiano metropolitano.

Dunque indaghi i luoghi, in relazione alle persone?

No il contrario, indago le persone attraverso i luoghi. Forse più che i singoli le masse, perché la città è fatta di una massa uniforme e disuniforme di persone che vanno tutte nella stessa direzione e tutte poi in fondo nella direzione opposta.

Come è cambiato il tuo lavoro in relazione a questi temi, comunque costanti? C’è un prima e un dopo?

Inizialmente, nei miei lavori sceglievo di ritrarre la realtà fuori fuoc”. Era per me un modo per avvicinarmi più al singolo. Poi è arrivata una serie di dittici in cui fuoco e fuori fuoco sono affiancati: lo stesso soggetto, in due modalità diverse. Il fuori fuoco offusca il dettagli e si avvicina più al concetto, il fuoco, mette in risalto le realtà. I nuovi lavoro invece sono a fuoco, e più incentrati sull’idea di massificazione nel panorama metropolitano.

Un nuovo modo di vedere la città…

Sì, in un certo senso. Ora sono concentrato sui luoghi di ricreazione, come parchi o spiagge. Sono luoghi per definizione di svago, dove le ritualizzazzioni quotidiane dovrebbero essere annullate. Ma in realtà, mi rendo conto, non è così. Anche in questi luoghi di fuga, siamo tutti vittime di meccanismi schematici che entrano poi in quella Schachtel, la scatola della città. Dunque che lo si voglia o no, la metropoli entra nelle nostre viscere, le permea totalmente e influenza anche il nostro tempo libero. Sono riflessioni affascinanti… E che peraltro non avevo mai forse raccontato abbastanza, in relazione al mio lavoro.

Cosa vuol dire per te essere fotografo allora, in cosa consiste il tuo lavoro?

Io sono due volte fotografo. Da un lato come professionista, dall’altro come artista. Nel primo mondo mi muovo nell’ambito del commerciale, lavoro con la finzione, con la ricerca costante e maniacale dell’artificio. Nel secondo mondo, quello dell’arte, cerco di uscire da queste costruzioni, per naturale reazione, e fuggire nella realtà. Nulla nelle mio foto è fittizio, tutto è così come lo vedo e lo colgo, spontaneamente, nel mondo che mi circonda.

Come scegli i luoghi da fotografare?

Spesso vado appositamente in determinati luoghi, in città sovraffollate e straripanti, perché so che li troverò quello che cerco. A volte però mi lascio stupire, incontro inaspettatamente scenari intriganti, li osservo, li studio e poi torno, nelle medesime condizioni (stesso giorno, stessa ora…) per coglierle di nuovo attraverso l’obiettivo.

Dunque non sei un fotografo la cui macchina fotografica è una protesi di se stesso?

No assolutamente no, non vivo con la camera al collo, se è questo che intendi. Anche in vacanza, non ho quasi mai la macchina con me, non credo nella foto ricordo. Un ricordo è qualcosa di intangibile che si fotografa nella mente e nelle emozioni. Fotografare un tramonto, solo per testimoniare di averlo visto, senza però averlo vissuto è stupido. Le cose preferisco sentirle. Poi quando è il momento di scattare, è un’altra cosa. La fotografia è un modo per esprimere i miei concetti, le mie idee, il mio senso critico e la mia visione del mondo. Non per provare agli amici di aver visto questo o quello. Anche perché, diciamocelo, a chi interessano le foto delle vacanze degli altri?

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