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October 10, 2011

Giovedì del Fotoreportage, con Palmera e Riccardi

Martha Jimenez Rosano

Nell’ambito del mese della fotografia, quest’anno dal 21 settembre al 15 ottobre, il Circolo Fotografico “Tina Modotti” di Bolzano organizza le serate del “Il giovedì del Fotoreportage”, una serie di incontri con fotoreporter italiani, moderati dal fotografo bressanonese Giovanni Melillo Kostner, per continuare con la tradizione di avvicinare il pubblico locale alla scena attuale della fotografia di reportage e di dare l’opportunità di un vero confronto e dialogo fra i protagonisti e il pubblico.
Lo scorso giovedì 6 ottobre è stato il turno di Giorgio Palmera, fotografo e fondatore dell’associazione Fotografi Senza Frontiere Onlus, e Paola Riccardi, vicepresidente e direttore artistico dell’associazione. Ci hanno raccontato dell’ultimo lavoro editoriale di Giorgio Palmera e della visione che da oltre 10 anni fa della fotografia una pratica e filosofia ben chiara.

Chi è Paola Riccardi, come nasce la collaborazione con Fotografi Senza Frontiere e quali ruoli svolge all’interno dell’associazione?

Ho lavorato per 12 anni all’agenzia Grazia Neri di Milano occupandomi della galleria, delle mostre fotografiche e dell’ufficio stampa, avendo l’occasione d’incontrare moltissimi autori importanti del panorama internazionale. Ho conosciuto l’associazione nel 2004 e ho iniziato a collaborare a distanza con il gruppo. Questa collaborazione è diventata sempre più stretta, consolidandosi anche su una serie di affinità elettive, di visioni simili della fotografia, dell’arte, del giornalismo, fino a portarci ad una collaborazione quotidiana, di consuetudine, in cui mi occupo della curatela delle mostre e delle pubblicazioni, sia dell’associazione che, talvolta, anche dei lavori personali degli autori. È su questo ambito che mi sono trovata a seguire alcuni importanti progetti di Giorgio Palmera, aiutandolo a finalizzarli in senso editoriale, cioè, progetti che avevano già un loro corpo, che avevano già una progettualità molto spiccata e che insieme abbiamo finalizzato in forma di libro.

Siamo partiti con una prima pubblicazione autoprodotta, a cui teniamo moltissimo, che è Al Jidar, cronaca della vicenda della segregazione palestinese, nella Striscia di Gaza nella zona della West Bank. Tutti gli altri libri che ho fatto con Giorgio sono stati libri prodotti da editori come Body and soul e Memoria, questo ultimo ha vinto il premio per il miglior libro del anno al Lucca Digital photo festival 2011.

Giorgio, parlaci della tua ricerca come fotografo.

Ho iniziato come fotografo con una formazione classica, nel senso che frequentai l’Istituto superiore di fotografia di Roma. Era il tempo della pellicola ancora, quindi si studiava banco ottico e tanta tecnica fotografica. Ho aperto uno studio, ho fatto pubblicità e lavorato nell’architettura, quali esperienze iniziali commerciali, anche interessanti per la meticolosità che richiedevano. Ho lavorato tanto nella camera oscura che, considero, sia stata la mia formazione da fotografo. Mi piaceva molto lavorare in questo modo, pero mi era “stretto”, mi mancava qualcosa.

Finché, per esigenze fisiche e emotive personali, sono partito per Nicaragua con l’idea di fare un viaggio di tre mesi e di fare un reportage. Volevo confrontarmi con un’altra fotografia. Quest’idea si univa alla mia esigenza di viaggiare che avevo già da prima. In Nicaragua si sono aperte porte che non immaginavo si sarebbero aperte. Vi sono rimasto due anni.

Lo considero il momento di rottura con tutto un mondo della fotografia che non mi apparteneva più, nonostante avessi raccolto una serie di conoscenze tecniche, e non solo. Però tutto si era esaurito. Ho rincollato la mia voglia di conoscere altre culture, di viaggiare, di fermarmi e allontanarmi da una serie di esperienze “chiuse”.

In particolare, per sopravvivere e rimanere in Nicaragua ho avuto l’opportunità di lavorare con i ragazzi di strada attraverso una ONG che mi ha proposto vitto e alloggio in cambio di insegnamento. Mi sembrava geniale. È stato questo l’embrione di FSF. Il lavoro dell’associazione è nato come un laboratorio tecnico insegnando camera scura. Probabilmente, all’inizio, spiegavamo con meno attenzione verso l’auto-rappresentazione perché si trattava più di offrire un laboratorio tecnico con la finalità di trovare un mestiere. Loro andavano a fare fotografia e tornavano con ritratti diversi e sorprendenti per quello che raccontavano. Il discorso che loro fossero più in grado di noi, e in maniera diversa, di raccontare loro stessi è uscito fuori da solo. Questa è diventata l’anima di FSF, l’opportunità di raccontarsi. La prima mostra che abbiamo fatto si intitolava “Nicaragua, un paese visto dagli occhi dei bambini” dove si sottolineava questo aspetto. Dopo sono seguiti una serie di viaggi e si sono aggiunti altri fotografi al gruppo come Emiliano Scatarzi. Personalmente in quell’occasione sono nato come fotografo. Ho visto che le fotografie dei ragazzi di strada erano diverse da quanto io sentivo che doveva essere “la strada”. Loro mi portavano immagini che stravolgevano qualsiasi idea che mi ero fatto, quindi ho capito che bisognava stare nei posti, avvicinarsi con delicatezza, entrare sempre più dentro e fare quel passetto in più che era andare a vedere, dietro quella linea che è la linea che uno si fissa come idea di una situazione. Oggi se mi sembra di aver esaurito un lavoro, tento sempre di fare un passo indietro e di non credere che sia davvero esaurito, penso che ci sia ancora un millimetro alla fine.

Sulla concezione didattica dell’insegnamento di Fotografi Senza Frontiere.

PR: sicuramente la grande risposta che c’è stata fin dall’esperienza in Nicaragua da parte degli allievi verso la fotografia, ha cominciato nel tempo ad agire anche profondamente sulla concezione didattica del nostro insegnamento. La riflessione di quanto in fondo i nostri allievi diventano maestri anche per noi, capaci di rivelarci un atteggiamento che magari al fotografo sfugge, ha fatto si che la didattica stessa si sia conformata all’idea di una didattica flessibile adattata alla situazione, spesso suggerita dagli allievi stessi, mettendo da parte qualsiasi senso di predominanza del sapere. In questo senso, abbiamo abbandonato definitamente l’idea di poter, di voler essere per loro dei maestri nel senso tradizionale. Sapevamo di avere delle competenze a volte complesse per loro, abbiamo sempre voluto ascoltare cosa veniva dagli allievi.

Alla fine ci siamo resi conto che l’obiettivo ideologico e politico di puntare allo sviluppo delle energie nei luoghi, autonome, autoctone e non preconfezionate, ci contrapponeva e contraddistingueva dalla cooperazione internazionale di tipo classico.

È difficile però, da un lato mettere da parte il proprio orgoglio professionale e, dall’altro, far partecipare gli allievi alle lezioni perché comporta molta più complessità dei corsi “regolari”.

Questa è una linea che per noi ha pagato, per esempio i nostri allievi in Uganda si sono organizzati e lavorano attivamente nel media center, anche in assenza nostra, hanno aperto un conto in banca dove si dividono i guadagni del laboratorio, si sono iscritti una costituzione dei FotografiSenzaFrontiere ugandesi. Il che ci conferma che stiamo andando nella direzione giusta. In Uganda abbiamo fatto fatica nella seconda missione a recuperare gli allievi, a riproporre il metodo alle stesse persone, perché molti si erano già mossi dal villaggio di Kalongo. Quel seme buttato nella prima missione ha germinato attraverso un allievo che ha fatto da ponte per tutti gli altri. Si è sedimentata un’esperienza. Con due viaggi in Uganda e due corsi di un mese e mezzo, siamo riusciti a creare una realtà che va avanti da sola. Questo è il nostro obiettivo e non tanto l’essere indispensabili ai laboratori.

In futuro significherà poter fare molti più interventi nella certezza che i nostri allievi porteranno avanti le istanze proposte.

Sicuramente quest’anno è un anno di raccolta dopo 10 anni di lavoro. Ci fa sperare di aver fatto delle scelte ben programmatiche giuste, che danno dei frutti sul lungo tempo, ma giuste.

Sul lavoro di Giorgio Palmera presentato a Bolzano.

PR: il lavoro si relaziona direttamente con l’attività di FotografiSenzaFrontiere. È un lavoro editoriale legato alla traslitterazione visiva di un libro importante sulla mafia, Parole d’Onore di Attilio Bolzoni, che ha una caratteristica precisa e abbastanza unica di raccontare la mafia attraverso le parole dei mafiosi.

Ci siamo accorti che la mafia raccontata in questo modo era un fenomeno raccontato da dentro, dai protagonisti. Quindi, giusto o sbagliato, condivisibile o non condivisibile, l’importante era che quel libro riportava esattamente le parole, le testimonianze di primissima mano dei mafiosi, delle persone direttamente coinvolte in questo fenomeno. Come ci siamo approcciati in questo progetto è stato in fondo come ci approcciamo a tutti i nostri progetti formativi e di documentazione sociopolitica, portati avanti in questi anni. Per esempio, con il gruppo indagine di FSF, si cerca un approfondimento, una documentazione giornalistica che non sia all’insegna della superficialità e del preconcetto, di tutti quei meccanismi deleteri dell’informazione che conosciamo.

Lo stimolo grosso del libro di Attilio Bolzoni, nei confronti della fotografia di Giorgio Palmera è stato quello di dargli il valore del materiale di prima mano e di voler, con le fotografie, inserirsi in questo universo narrativo che è assolutamente vero. Da una parte, una ricostruzione della mafia nelle parole dei mafiosi e, dall’altra, una ricostruzione del fenomeno mafia attraverso la fotografie, basandosi su delle impressioni verbali di una storia e di una questione politica importante. La fotografia di Giorgio vuole arrivare ad essere impressione visiva di questa storia. In fondo quello che Giorgio ha fatto stando a Palermo, girando la città, andando nei luoghi classici segnalati, è stato connettere i due linguaggi tra loro. È stato un progetto all’insegna di voler registrare qualcosa e di non arrivare a delle conclusioni o dare una lettura particolare, ma registrare gli umori dei luoghi, delle persone, della cultura. Un dialogo con una forma letteraria unica che il libro ha, e da parte sua, Bolzoni è stato un grande mentore di questo lavoro.

Giorgio, come sei arrivato all’idea di lavorare sui testi di Attilio Bolzoni?

Ci sono due ragioni fondamentali che mi hanno portato a eseguire questo progetto.

Una è vedere in un giornalista sia uno scrittore, sia un magistrato che riesce a scrivere cose abbastanza delicate. Questo libro esce fuori della norma e della maniera classica di raccontare la mafia e la trasporta al teatro. Questa maniera di utilizzare un canale artistico e di sviscerare qualcosa d’altro è stato quello che mi ha stimolato. Inoltre, c’è da aggiungere agli studi sulla mafia qualche altra cosa, quella cosa che non si vede, quel tessuto nascosto che è fatto di tradizioni, che sono anche i giovani che si atteggiano a Palermo, di una stima verso personaggi di rispetto. Tutti questi sono sentimenti che anch’io ho provato da maschio a Roma, il fascino del voler essere il cattivo del quartiere.

Seconda ragione, una forte connessione con Al Jidar, quale sperimento e racconto dal punto di vista diverso dai bambini. Cito, in particolare, la fotografia di due bambini seduti vicino al muro. Loro sono seduti già dalla parte del muro nonostante il muro non fosse stato chiuso. Un segnale che il muro sta dentro e che non è una barriera fisica. Una chiave di lettura fondamentale per il lavoro: andare a cercare le sensazioni della gente più che lo stato fisico.

Queste due cose insieme mi hanno fatto decidere di fare il libro sui testi di Bolzoni. Anche qua, si trattava di fotografare il nulla. Perché non c’era nessuna traccia, c’erano omicidi, processi, eccetera. Bisognava andare a cercare.

“L’obiettivo di questo lavoro non era un inneggiare alla mafia, ma sottolineare diversi aspetti”?

PR: abbiamo insistito molto sul discorso di contrastare il pregiudizio, il preconcetto, su qualsiasi argomento un autore possa trattare. Già da anni abbiamo capito che va superato il preconcetto dell’Africa povera, piuttosto che delle popolazioni sottosviluppate quando in realtà sono culture diverse, ma altre tanto ricche.

Credo che questo progetto sulla mafia faccia un passo in più, che è superare il tabu. Questo libro suscita una certa attrazione verso il mondo mafioso, verso un certo tipo di codice culturale che è stato anche sostituito e superato da una mafia molto più recente e sanguinosa.

È più facile superare il tabu con l’immagine che con le parole. Per esempio, nella cultura mafiosa che ci sia un grosso compromesso con la cultura cattolica è ben risaputo però, guarda caso, è una questione che difficilmente si può esprimere. Con l’immagine è più facile. Il tema della religione è stato centrale nel lavoro, è stato, all’inizio, il filo conduttore con cui Giorgio si rendeva conto di questa grossa presenza e invadenza di elementi legati alla religione accanto alla cultura mafiosa molto diffusa. Con l’immagine è possibile suggerire queste relazioni. Spesso la fotografia ti permette di andare oltre a certi tabu perché le immagini sono, forse, una presa di posizione.

Oggi abbiamo parlato di cercare di guardare il problema da più prospettive diverse. L’obiettivo di questo lavoro non era un inneggiare alla mafia, ma sottolineare diversi aspetti.

La Sicilia, piuttosto che i luoghi caratterizzati dalla presenza della mafia o di altri tipi di mafia in altre regioni, è troppo facile reputarla come paese dove non funziona nulla, dove tutto è sbagliato e tutti sono mafiosi. Nei codici culturali della mafia ci sono state delle cose che hanno consolidato profondamente la società del luogo, tanto che la mafia vecchia non si riconosce più con la nuova. C’è stato un notevole passaggio storico.

Non possiamo a distanza di vent’anni credere che la mafia sia solo un fenomeno delinquenziale. È proprio una cultura di un paese profondamente cresciuta sulla cultura della loggia e della fiducia. La mafia nasce dal latifondismo e da un certo tipo di società che forse al suo tempo rispondeva molto bene. La demonizzazione di un fenomeno è sbagliato di per sé perché, invece, va capito nel suo contesto storico.

Il senso di queste inchieste o progetti è sempre quello di cercare di dare dei lineamenti più precisi, più sfuggenti al problema. Non inquadrare un problema come bianco e nero, come giusto o sbagliato, ma come fenomeno. Il fenomeno di una società di per sé non è mai ne giusto ne sbagliato, è un fenomeno che avviene, va capito, va registrato, va monitorato. Il lavoro del fotografo come quello del giornalista o quello dello scrittore, ha questa grossa responsabilità di monitorare la società contemporanea. E lo si fa spogliandosi dei propri preconcetti e pregiudizi. Se parti da un’idea preconcetta e cerchi di andare a dimostrarla ce la farai sicuramente, perché troverai tantissime prove a favore del preconcetto però non avrai scoperto nulla.

Nel mio ruolo di curatrice questo mi succede spesso, molto di più di quanto succede ai fotografi. Mi trovo ad affrontare tematiche delle quali non ho mai veramente approfondito e questa mia assenza di una lettura definita dei problemi mi aiuta ad avere uno sguardo neutrale sulle cose. Tale assenza, a volte, può essere anche d’aiuto al fotografo che deve scaricarsi dalla sua cultura precondizionata per debanalizzare il loro lavoro, renderlo meno scontato e didascalico nella lettura finale interpretativa che ne fanno. Si tratta di notare di più le cose sottili che in realtà ti mettono quel germe di dubbio. Avere sempre un atteggiamento critico.

GP: Il pubblico ci parlava della giusta distanza, ma io mi chiedo qual è la giusta distanza? Sta nel dire quello è il cattivo è tu sei il buono? Pensando cosi uno si sbaglia. Quello cattivo esiste perché c’è una condiscendenza quanto meno culturale e Berlusconi ne è un esempio.

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