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October 9, 2011

Una casa di Spettri!

Jimmy Milanese

La vita di Henrik Ibsen non ha nulla a che fare con quella di Plauto, che leggeva le sue scene di notte agli amici, accanto alle macine del mulino; non assomiglia per nulla a quella di Shakespeare, che improvvisava versi dei suoi drammi in sella a vitelli scuoiati; non è per nulla paragonabile a quella di Molière, che derideva in scena l’assurdo nei suoi personaggi maschili, infine, non ha nulla in comune con quella di Goldoni, che doveva destreggiarsi tra supponenti letterati e comici presuntuosi.

Ibsen se ne stava probabilmente seduto nella sua sedia, scrutando uomini e donne alle prese con la loro eterna commedia, soppesando con millimetrica precisione le loro menzogne, i falsi slanci eroici, le illusioni coltivate come gerani sul davanzale. Egli componeva, scomponeva e ricomponeva questo puzzle sociopsicologico in una infinita varietà di giochi scenici, fino al profondo degli abissi, dove l’uomo è solo, in compagnia dei suoi spettri.

La sua prima occupazione, appunto, fu quella dell’aiutante farmacista: dosare, soppesare, manipolare, amalgamare. Gesti meccanici che trovarono ampi spazi nelle descrizioni dei suoi personaggi. I moti europei del ’48 arrivarono fin alla cittadina di Grimstadt, Norvegia, quando Ibsen, ventenne e completamente lontano dal suo prossimo glorioso futuro, iniziò quel processo di resurrezione, condiviso da gran parte dei giovani del continente europeo. Con la differenza che quelli si davano al socialismo, al consumismo o alla bella vita, mentre lui, Ibsen, schiudeva i petali del suo genio creativo.

Per Ibsen, vivere già significava «combattere contro i trolls», che non si nascondevano nell’oscurità dei fiordi norvegesi, ma negli anfratti dell’ anima, della psiche. Erano i tempi di una società che stava pian piano formando la sua piccola borghesia, noncurante della miseria che fioriva tutt’attorno. In estrema sintesi, l’originalità del teatro di Ibsen sta nell’aver fotografato quei suoi contemporanei, uno per uno, davanti a quel “microscopio” così potente. Erano gli anni in cui nasceva la psicoanalisi, la teoria dell’inconscio, luogo dove risiedono quei conflitti che tanto influenzano la nostra percezione del mondo. Per Ibsen, ogni anima borghese del suo tempo era degna di riproduzione teatrale, senza alcun risparmio, senza alcuna reticenza, nemmeno del bambino nascosto nel seno della madre. In altre parole, dopo aver passato anni a scrivere poemi, Ibsen si da ai drammi borghesi e definisce il suo insostituibile posto nel teatro otto-novecentesco, che all’inizio lo esilia (come accadrà poi a Pirandello) proprio percchè il suo è un teatro ancora d’avanguardia, lontano dal classicismo o dallo spettaculum fine se stesso.

 

Le opere di Ibsen sono un battello, perfettamente funzionale e dotato di tutti i confort e sistemi di sicurezza, dove però i ricchi passeggeri siedono con apparente ansia e timore. Infatti, su tutti grava la presenza cupa e e orrenda di un cadavere nella stiva, uno spettro, un incubo segreto che li accompagna nell’attraversamento della loro breve vita. In questo modo, inventando il teatro del salotto borghese, Ibsen porta a termine il lavoro di messa a punto del c.d. “dramma borghese”, già iniziato da Diderot.

«Spettri» è anche il titolo dell’opera più popolare – accanto a «Casa di Bambole» – dello scrittore e drammaturco norvegese. Tutto inizia con un peccato, quello di una madre che decide di vivere assieme a un marito immondo e per questa scelta viene punita dal fatto che il figlio si porterà dietro per tutta la vita il cadavere di suo padre, finendo per morire di una oscura malattia la cui materialità non viene nemmeno accennata. La madre assisterà alla lenta perdita di senno del figlio che prima s’innamora della serva, rivelatsi essere il frutto di una scappatella paterna, poi s’imbatte nella distruzione del patrimonio paterno, infine, chiede invano alla madre di aiutarlo a togliersi la vita. Sulla scena appare il pastore, ovvero l’unica apparente fonte di sicura Verità, che a sua volta dovrà recedere di fronte all’amara pesantezza dei compromessi davanti ai quali la vita mette di fronte l’uomo.

La rilettura di questa potente opera drammatica, dove i protagonisti sono chiamati a fare i conti con le prorpie miserie più ancestrali ed ataviche, è ben sviluppata dalla regista Cristina Pezzolli, che inaugura la stagione 2011/2012 del Teatro Stabile di Bolzano. Si parte con Ibsen, passando per Checov, Christie, Brecht, Goldoni, Shakespeare e Paravidino.

La scenografia didascalica esalta l’ossessiva tridimensionalità degli attori, attraverso un contrappunto cromatico a tinte grigie e cupe, proiettate su pannelli che forse servono a delimitare i torbidi confini delle psicosi umane. Lo spettro del marito immondo, nonché uomo politico osannato sia in vita si in morte dalla moglie sacrificata alle convenzioni sociali, è rappresentato da una macchia, da un fluido indefinito che cala sulla scena indicando allo spettatore il procedere della malattia del giovane figlio. In un gioco di luci che svolgono la funzione di specchi verso il passato, si consuma il dramma di una famiglia che procede la sua vita, appunto, con il cadavere nella stiva: il ricordo di un padrone di casa la cui vera natura zozza e depravata viene finalmente svelata. Lo spettro presente in quella casa riappare e divampa gradualmente nella pazzia del figlio. Certo, se si vuol essere proprio pignoli, nel suo adattamento, Cristina Pezzolli lima alcune delle numerose componenti del dramma di Ibsen, ad esempio quando sorvola alcuni importanti momenti in cui i protagonisti dovrebbero spiare/origliare attraverso porte socchiuse. Oppure, in alcuni momenti in cui le scomode Verità sono rivelate, manca una adeguata giust’apposizione scenica tra ipocrisia e compromesso con le necessità della vita.

Venendo agli interpreti, nei ruoli principali troviamo la collaudata coppia formata da Patrizia Milani, madre inetta e incapace di ribellarsi al marito immorale e Carlo Simoni, pastore nonché amico del marito e curatore del patrimonio di famiglia. Le due glorie del nostro teatro offrono momenti di profonda introspezione. Di fronte a tanto talento non si fatica a percepire una volta il figlio una volta il genitore, una volta il carnefice una volta la vittima che alberga nel nostro inconscio. La parte del figlio è affidata al genovese Fausto Paradivino, sicuramente talentuoso, ma forse troppo sulle righe nei panni di un giovane artista la cui vita viene negata da un padre il cui ricordo è vago e incostante. Stesso discorso per la serva/sorella, Valentina Brusaferro, che troppo spesso sovraespone le sue doti recitative, predominanti al personaggio stesso, ma alla fine diverte e convince quando apprende di essere stata trattata da serva in luogo di figlia del ricco padrone di casa. Ultimo, Alvise Battain, ovvero il padre della serva, quello sui quali tutti, pubblico compreso, si dovrà pian piano ricredere, circa le sue doti morali e spirituali, in principio denigrate e disprezzate da tutti. Un grande Battain, zoppo per dovere di scena, ma capace di riscuotere gli applausi più convincenti dal pubblico che ha riempito il Teatro Studio.

Per concludere, una grande produzione che non individua in nessuno dei protagonisti la chiave interpretativa dell’opera, lasciata in mano al pubblico che silenzioso sfolla la sala e se ne ritorna a casa con le proprie ansie le proprie paure, i propri spettri, NONOSTANTE!

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