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October 7, 2011

People I Know. Claudia Corrent: vivere, raccontare, fotografare

Anna Quinz

Una macchina fotografica, in questi anni digitali, la possiedono praticamente tutti. Ma non tutti, una volta dietro l’obiettivo riescono a vedere le cose così come le vede chi, della macchina fotografica ha fatto la propria migliore amica e il proprio strumento di lavoro. Claudia Corrent, trentunenne bolzanina, rientra a pieno titolo in questa categoria di persone, perché da quando, bambina, ha scoperto la macchina fotografica di papà, non l’ha più lasciata andare. E così, dal riordinare le vecchie foto di famiglia, al fotografare per passione e per professione, il passo è stato breve. Ora Claudia, che nel frattempo si è laureata in filosofia e ha iniziato a lavorare nell’ambito della formazione, guarda il mondo con l’occhio del professionista, e di certo, lo vede diversamente da noi “comuni mortali” e fotografi della domenica.
In che modo, attualmente, usa maggiormente il mezzo fotografico?

Sono educatrice in un centro giovanile, dunque utilizzo molto la fotografia come medium per lavorare con i ragazzi. Da loro ricevo molti stimoli, anche perché non propongo mai un approccio frontale. Ci confrontiamo, loro mi propongono idee e suggestioni che poi vengono elaborate e su cui ragioniamo insieme. Così si crea una relazione tra noi, e per me, da fotografa, è interessante, perché io ho un mio stile, ma grazie allo sguardo fresco e genuino dei ragazzini, riesco a vedere le cose in un modo diverso. E a differenza di quel che si crederebbe, nonostante siano in un’età che tende all’omologazione, riescono ogni volta a mantenere la freschezza del punto di vista.

Qual è stato, in questo ambito a confine tra fotografia e didattica, il progetto più interessante?

Un progetto interessante è stato quello dell’autoritratto. È un buon modo per i giovanissimi per raccontare se stessi e la propria unicità. In questo tipo di progetto la mia formazione filosofica mi è tornata utile, dato che è per definizione un modo per interrogarsi, e per porre delle domande ai ragazzi. Mi ha permesso insomma di stimolare in loro una concezione critica, dando una possibilità in più per approfondire i temi trattati.

Autoritratto: quanto è difficile per un fotografo, mettersi al di là e al di qua dell’obbiettivo? Non crea una specie di spaesamento, tra soggetto e oggetto?

L’autoritratto per un fotografo (e per un filosofo) è un tema intrigante. Proponendo questo tipo di ricerca ai ragazzi, ho cercato di farlo prima su di me. E mi sono resa conto che è una cosa naturale. Ma strana. Permette di avere maggior controllo – parlo da fotografa – anche se non vedo una differenza tra soggetto fotograto e soggetto fotografante. Alla fine, la fotografia, è un continuum, che non finisce mai.

È stata scelta per rappresentare l’Alto Adige in un progetto collettivo, voicesfromitaly, che sul web voleva raccontare le diverse regioni italiane attraverso lo sguardo fotografico. Come e cosa ha scelto di raccontare questo territorio?

È stato un modo interessante per osservare la mia terra. Attraverso sei temi (gente, habitat, lavoro, paesaggio, luogo comune e il miracolo italiano), ho dovuto condensare in poche immagini tutta la complessità dell’Alto Adige. Ho lavorato con dei dittici, per avere più spazio, una foto a volte non basta, ma anche per far uscire meglio i contrasti che ho colto. I due temi più stimolanti sono stati senz’altro miracolo italiano e luogo comune. Per rappresentare il primo ho scelto l’Ex Alumix, edificio dalla storia affascinante, che non conoscevo. Certo è che in queste immagini manca la componente umana, mi piacerebbe, potendo, ritrarre anche le persone che di quel luogo hanno davvero scritto la storia. Per rappresentare il luogo comune, ho affiancato il bassorilievo del duce in piazza Tribunale e la campagna dei Freiheitlichen con il tricolore “spazzato” via. È un’immagine che credo ben rappresenti la polifonia di punti di vista della nostra terra, le problematiche legate all’identità italiana e tedesca a confronto.

Che immagine dell’Alto Adige ne è uscita?

È uscito un Alto Adige non lineare, complesso, diverso da altre realtà italiane. Ad esempio, città come Piacenza o Modena, hanno una realtà più univoca, qui le questioni legate all’identità sono delicate, non c’è un’identità, ce ne sono molte. E questo dell’identità è diventato inevitabilmente il filo rosso che lega tutti gli scatti di questo lavoro. Anche nel fissare immagini di montagna, mi sono accorta che la questione identitaria entrava in gioco, inaspettatamente. Basti pensare alla toponomastica… in sostanza, ho capito che l’identità, ovunque, ma in particolare qui, non è una cosa data una volta per tutte, tutt’altro, è una realtà in costante evoluzione.

Dopo questo lavoro, la sua visione della sua terra è cambiata?

Sì, il mio approccio è inevitabilmente cambiato. Anche perché mi sono trovata nella condizione di presentare l’Alto Adige allo sguardo di persone di altre regioni, cercando di sfatare quei luoghi comuni e quelle banalità che normalmente descrivono la nostra terra. E che io stessa, prima, in qualche modo avevo nel mio bagaglio personale.

Pubblicato su “Corriere dell’Alto Adige” del 2 ottobre 2011

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