Music

September 24, 2011

Laurie Anderson, uno spettacolo intenso. Poca musica, pochi applausi

Emilia Campagna

Una promessa è una promessa: e se ti chiami Peter Paul Kainrath e la promessa – di venire a Bolzano, a Transart – te l’ha fatta Laurie Anderson, allora fai di tutto perché possa essere mantenuta. E dunque a Bolzano Laurie Anderson ci è arrivata: la data alle Officine FS era la più glamour dell’eclettica programmazione di Transart e la gente non si è fatta attendere. Biglietti esauriti parecchi giorni prima del concerto e tanto entusiasmo per l’esibizione dell’icona di un genere indefinito che può piacere ai cultori del rock come a quelli della classica contemporanea.

Laurie, si sa, non è un’artista pop: quando per il suo “Oh Superman”, autoprodotto, le arrivò un ordine di 40000 copie, pensò che “se piaceva tanto, doveva essere brutto”.

In questo non cercare la facile approvazione, nell’assenza di facili compiacimenti, sta la Laurie Anderson di allora e di adesso: a 64 anni la cantante si guarda indietro, e si racconta. Ha raccolto canzoni e poesie in un album, “Transitory life”, titolo che è tutto un programma e parla già da sé di questa attitudine retrospettiva. Canzoni, ma soprattutto parole, parole e parole: e la serata, più che un concerto, è un reading in cui primeggia la Laurie Anderson storyteller più che la musicista e la performer.

Consueta scena minimal, sfondo blu, un leggio, fascio di luce dall’alto: Laurie Anderson si presenta imbracciando il suo violino elettrico, e ne cava squarci su abissi di suono: stregonessa dell’archetto, senza melodia, senza armonia, puro colore (cupissimo). Poi la voce, l’incantatorio andamento di una narrazione che parla di un mondo prima del tempo: è “The Beginning Of Memory”, dall’album Homeland, apologo sulla nascita della memoria che in sé contiene tutta la serata. Sui loop di rarefatte basi musicali si susseguono le parole, a fiumi, sprazzi di memoria e di racconti autobiografici: il soggiorno da una famiglia amish, luogo di insostenibile silenziosa rabbia, l’esperienza come commessa da McDonalds (“mi chiamavano la tedesca ed è stata l’unica volta nella vita che potevo dare alla gente esattamente quello che mi chiedevano”), l’infanzia. Laurie Anderson racconta, la voce ha un ritmo incantatorio, il timbro avviluppa con il morbido accento newyorkese, ma chi non ha un inglese smaliziato qualcosa qua e là si perde: mancano i sottotitoli ed è lei ad accorgersene, ad un certo punto dello show: “Deve essere una situazione un po’ straniante: sentire qualcuno che parla, sentire un po’ di musica…”.

Musica però ce n’è stata poca: sulla carta era un concerto–spettacolo, nei fatti un reading; chi voleva sentire più canzoni è rimasto un po’ deluso. Tra un racconto e l’altro, solo alcuni brani del ricco repertorio: tra queste “Hey ah”, “Maybe if I fall”, e l’assolo violinistico di “Flow”, momenti rarefatti e intensi: ma oggettivamente l’applauso di apertura era decisamente più caloroso di quello di commiato.

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