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September 21, 2011

People I Know. Giorgio Seppi, luce, arte e la Bolzano degli anni ’80

Anna Quinz

giorgio seppi
Cos’hanno in comune un artista e un elettricista? Apparentemente nulla. Ma se nel mezzo ci si mette la luce, la distanza si accorcia. Ed è proprio in questo punto intermedio che sta Giorgio Seppi, artigiano creativo, che della luce ha fatto l’ingrediente centrale della propria esistenza. Light designer, dal passato di elettricista ha preso le competenze tecniche, e dalla propria innata creatività ha tratto l’arte, divenendo stimato creatore non solo di lampade, ma anche e soprattutto di ambienti luminosi. Ma la luce non è solo uno strumento di lavoro per Seppi, è anche uno stile di vita. Perché si possono illuminare i luoghi e le case delle persone, ma si può anche essere persone illuminate. Penultimo di 5 figli, proviene da una famiglia di creativi, e a sua volta ha dato alla luce, insieme a sua moglie, una famiglia di creativi. Facendo in modo che le sue figlie, ora grandi, potessero brillare di luce propria. Così, parlare con lui di luce, in senso stretto, o in senso lato, diventa facile, e da un dettaglio prettamente tecnico, si passa, con la levità che caratterizza questo elemento sempre a confine tra natura e artificio, a parlare di storie di vita, di stati d’animo, di persone e di luoghi amati.

Come racconterebbe, da professionista e da essere umano, la luce?

La luce è un motore che dà vita alle cose, dà loro corpo e consistenza. E può anche trasformarle e trasformare il modo di vederle e percepirle.

La luce è il suo pane quotidiano. Allora, inevitabile chiedersi, da “profani”, come possa essere magicamente illuminato il suo “nido domestico”…

In casa ci sono sia pezzi miei, a volte solo di passaggio, che lampade di designer che amo. Di base però ho solo luci utili, non status symbol. Ma è necessario distinguere tra luce e lampada: la luce, deve essere utile e piacevole, mentre una lampada deve avere in sé una certa poesia, che connetta la luce che produce, i materiali con cui è costruita e la sua funzionalità.

Spesso, per descrivere la luce, si usano termini che possono essere utilizzati anche per raccontare gli stati d’animo: intensità, profondità… Quale luce, è per lei fonte di emozione?

Premetto che la prima cosa, per deformazione professionale, che noto in un luogo è la luce. E in ogni scelta d’illuminazione, ci sono pregi e difetti. La luce può far male, come quella gelida dei supermercati, ma anche accompagnare i momenti piacevoli, come certe luci calde di alcuni caffè. Non ho preferenze, ad esempio, tra calore e freddezza, amo la luce calda del tramonto, tanto quanto quella fredda dell’alba.

Bolzano, secondo lei è una città illuminata? Ha dei lati oscuri?

Bolzano potrebbe essere una città illuminata, dalla sua multiculturalità, ad esempio. Ma per la stessa ragione è spesso chiusa. Le cose stanno migliorando però, e io amo stare qui e vivere questa dimensione piccola in cui è possibile avere rapporti umani veri. Lati oscuri non ne trovo, anche se non sempre capisco questa spaccatura netta tra il centro storico, il salottino di Bolzano, e gli altri quartieri, troppo spesso dimenticati, che però non sono certo di serie B. E anzi, se potessi “illuminare” meglio una zona cittadina, sarebbe proprio il centro, illuminato in modo disomogeneo e poco efficace, che non gli rende giustizia.

Lei ha sempre saputo vivere a pieno i tempi e le epoche della città. Com’era Bolzano quando era giovane?

La Bolzano degli anni ’80 era più libera di quella di oggi. Non c’erano restrizioni, si potevano fare molte più cose, e noi ce li siamo goduti davvero. In città, attraverso i videoclip per esempio, arrivavano le novità “dal mondo”, restavi qui, ma tutto questo ti portava anche “fuori”. Erano gli anni del “London calling”. Se i miei fratelli più grandi hanno vissuto in diretta gli anni del Beat, i Beatles, il pacifismo, noi eravamo pienamente figli degli anni ’80, dei Sex Pistols. Si viveva bene, anche con meno sicurezze: oggi siamo più sotto controllo, è necessario avere determinate “cose” che in qualche modo limitano, il conto in banca ad esempio! Allora eravamo più liberi, anche se mai eccessivi. Ma poi, crescendo, soprattutto quando ho deciso di mettere su famiglia, ho iniziato a pensare prima alle mie figlie, e alla loro libertà, più che alla mia.

Il senso della famiglia è chiaramente un elemento centrale della sua vita. Cosa ha preso dai suoi genitori e cosa dà alle sue figlie?

Vengo da una famiglia di creativi, il mio papà era artigiano, falegname e scultore. Mia madre casalinga, era una lettrice vorace. Il lato manuale di me è dunque eredità paterna, quello culturale materna. Da loro ho imparato il valore della libertà, e la capacità di fare e vedere le cose in tanti modi. Ho cercato di trasmettere gli stessi principi alle mie figlie, insegnando loro che nella vita non vale mai la pena accontentarsi, bisogna inseguire ciò che si ama, e perseguirlo con energia. Questo a volte porta a naturali alti e bassi, ma poi, la soddisfazione che ne deriva ripaga tutto. Dunque, ora che sono grandi, sono fiero delle mie figlie, e, credo, loro di me.

Pubblicato su “Corriere dell’Alto Adige” dell’11 settembre 2011

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