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September 4, 2011

Una Bohème monocromatica distante dalla tradizione!

Jimmy Milanese

Sembra strano da immaginare, ora che festeggiamo il suo 150° anniversario ma, almeno per la lirica, l’Unità d’Italia rappresentò un vero e proprio disastro. Infatti, se molti dei regni, ducati e principati spazzati via dal Risorgimento erano sempre stati disponibili a sovvenzionare i propri teatri lirici, già il primo governo repubblicano di Cavour iniziò a vedere di cattivo occhio il costante indebitamento del settore lirico-operistico. A partire dal 1861, governi di breve o brevissima durata presieduti dalla destra storica si alternarono ad altrettanto brevi governi della sinistra storica, ma di questa alternanza i teatri lirici praticamente non beneficiarono quasi nulla. Dal punto di vista musicale, l’Italia uscita dal processo di unificazione era poco più che un deserto, agli antipodi rispetto al vivace mondo mitteleuropeo o anglosassone che accoglieva con entusiasmo tutto il frutto dell’italico ingegno che, in quegli anni, aveva il nome di Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi.

Superata la metà del secondo ottocento, seppur giunto verso la fine della sua gloriosa carriera, Verdi rimaneva ancora un modello inimitabile e per questo tenuto a debita distanza dai giovani compositori. Il grande pubblico preferiva rivedere le opere del grande maestro piuttosto che quelle di giovani autori o compositori europei. In altre parole, un certo conservatorismo culturale impediva alla cultura europea di penetrare i nostri confini nazionali, mentre oltreconfine il nostro teatro lirico era apprezzato e rappresentato.

Solo verso la fine della sua carriera, Verdi venne “contaminato” da quello che viene considerato il movimento culturale più importante del secondo ottocento, ovvero la Scapigliatura, alla quale partecipava in pieno Arrigo Boito, librettista di Otello e Falstaff: ultime opere del maestro parmense. Fu proprio il tumulto portato dalla scapigliatura all’interno di un mondo culturale ancora legato a valori romantici e istanze localistiche e risorgimentali, che rese possibile il fenomeno Puccini e, in particolare, la creazione della sua opera forse più popolare, ovvero più radicata nel vissuto politico-economico-sociale dell’epoca: La Bohème.

Assieme al giovane Puccini, il coetaneo Arturo Toscanini iniziava ad aprire uno spazio importante per le opere di Wagner, decretato come il più influente compositore dell’ottocento europeo. Toscanini, l “maestro di maestri”, direttore al Teatro Regio di Torino, dopo una breve esperienza come violoncellista, la sera del 1 febbraio 1896 si ritrovò tra le mani la tragedia di Mimì e Rodolfo: prima mondiale di una delle opere assieme più romantiche e semplici nella struttura che l’ottocento ci abbia lasciato, ispiratrice di romanzi, lavori letterari, dipinti e film.

Mimì è malata e lo confessa con fatica a se stessa, incontra Rodolfo e con lui una allegra compagnia di amici tanto poveri quanto felici, appunto, scapigliati,bohémien. Ben presto, Mimì e Rodolfo, assieme a Marcello e la sua vispa compagna Musetta, vengono coinvolti in una serie di litigi e incomprensioni che sono quanto di più facile possa succedere a persone che convivono in spazi angusti e con pochi soldi in tasca. Le due coppie si separano, finché, all’improvviso, riappare Musetta che annuncia l’agonia di Mimì, la quale muore scatenando uno dei celeberrimi “Mimì” che resero eterno Luciano Pavarotti. Quell’opera che, appena un anno dopo, un recensore del Los Angeles Time definiva per il suo parlare del “…paese della povertà e della buona compagnia…”, anticipava l’avvento del cinema, anzi, definiva un ritmo, una compartecipazione dei personaggi, il delicato processo della loro trasformazione psicologica che, di li a poco, sarebbe diventato patrimonio culturale comune del cinema moderno. In un certo senso, l’opera di Puccini rappresenta l’anello di congiunzione tra la più importante forma di intrattenimento del 700-800, il teatro lirico, con quella forma d’arte, il cinema, che in pochissimi decenni andrà ad impadronirsi degli spazi lasciati vuoti dal teatro per poi soccombere a sua volta di fronte all’avvento della televisione.

Con questo impressionante e affascinante carico sulle spalle entriamo in Arena e, superata la scalinata che immette in platea, ci troviamo di fronte a un palco completamente bianco, monocromatico, leggermente inclinato per compiacere la vista del sempre numeroso pubblico. La struttura è a forma di enormi blocchi posti sia parallelamente sia perpendicolarmente al palco, dai quali prima o poi dovrà uscire qualcosa, come in effetti accade poi, nella forma di una pioggia interminabile di coriandoli. In luogo dell’ootcentesco caffè Momus (indimenticabili le antiche scenografie di Luzzati!) che assieme alla soffitta rappresenta il secondo ambiente in cui si svolge l’opera, attraverso una massiccia entrata di comparse sul palco si materializza uno spoglio e asettico bancone camminando sul quale Musetta canta la sua celeberrima aria “Quando men vo’”.

In seguito, il duetto tra Rodolfo e Marcello “O Mimì, tu più non torni”, si svolge ai piedi di un vecchio e spoglio carro ferroviario. Ritornando a bomba, l’incontro tra Rodolfo e Mimì che dobbiamo immaginare in una vecchia soffitta, nella direzione accelerata di Arnaud Bernard perde molto del suo fascino originario, in quanto non appare il lume che si spegne, la ricerca della chiave persa da Mimì è posticcia e, in sostanza, nonostante il bianco domini ovunque, la scenografia sembra poco confacente a restituire le misere condizioni di vita del gruppo di amici. Spesso i movimenti tra i protagonisti – si pensi ad esempio come viene fisicamente sbeffeggiato Benoît, il padrone di casa che irrompe in soffitta reclamando la pigione – sono forzati e francamente superflui nell’economia dell’opera, che già nel libretto esaurisce gli atteggiamenti dei personaggi. Venendo ai protagonisti,  Marcelo Álvarez è nel ruolo di Marcello, in una serata dove pur non dando il meglio di se, riesce comunque a conferire al personaggio quella ampiezza di suoni, quella impronta drammatica che, seppur latitante dal punto di vista musicale, persiste sul piano scengorafico fino alla fine dell’opera. Fiorenza Cedolins è una pulita, efficace Mimì, applaudita dal pubblico e morbida nei suoni, anche se non sempre costante nell’emissione. In particolare, sembra soffrire verso la fine del quarto quadro, quando a Mimì è richiesta una emissione più greve e sofferente. L’allegra combricola, Vincenzo Taormina (Schaunard), Luca Salsi (Marcello), Deyan Vatchkov (Colline) riesce, nonostante la suddetta scenografia e alcune brusche scelte registiche, a dare la sensazione del gruppo di bohèmien squattrinati ma allegri e spensierati. Musetta ha la voce e le movenze di Natalya Kraevsky, affascinante dal punto di vista scenico ma veramente approssimativa in quanto a fraseggio e in diversi acuti. In particolare, la già citata aria di Musetta, non convince, forse complice la scelta di farla pericolosamente camminare sul bancone del bar inclinato rispetto alla scena. Certo, lo spettacolo deve avere un posto di primordine in Arena, ma dopo avere visto Violetta cantare appesa al cielo e Mimì camminare sulla graticola, ci chiediamo dove sia il confine tra quello e il rispetto verso la professionalità dei cantanti. Alla bacchetta, John Neschling che, nonostante le discendenze ecclatanti (pronipote di Schönberg e di Arthur Bodanzky), non riesce ad imprimere quel ritmo che siamo abituati ad ammirare, soprattutto nei duetti e negli insiemi.

La tradizione è lontana, lontanissima, si perde in quei filmati d’epoca dal sapore di un giradischi consumato dal tempo, quando la Caballè ti teneva come sospeso al filo dei suoi interminabili pianissimi piani; quando Alfredo Kraus dipingeva con la brillantezza dei suoi inimitati acuti quella notte di luna piena dove la luna era vicina e la gelida manina era quella di Mirella Freni o Renata Scotto che, seduta accanto a Luciano Pavarotti, per farsi intendere s’alzava e quel “primo sole” lo sentivi veramente sulla pelle, mentre s’avvicinava al pubblico impietrito da cotanta soave bellezza! Della Bohème altro non saprei narrare, son solo uno che scrive e spera di non importunare.

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