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August 1, 2011

La Traviata all’Arena di Verona

Jimmy Milanese

In gran parte delle opere liriche di successo, la sorte della protagonista femminile si conclude con la morte, per una “colpa” di tipo sessuale (Lucia, Norma, Carmen, solo per citare le più celeberrime), oppure per una scelta consapevole e drammatica (Aida e Tosca, che decidono di raggiungere in morte il loro amanti). In altre opere, ad esempio La Traviata e La Bohème, le protagoniste muoiono per via di una malattia. La donna affascinante, particolarmente trasgressiva e capace di profondi pentimenti, fino al punto di scomparire per morte violenta, è ricorrente tanto nella lirica ottocentesca quanto nella letteratura. Basti pensare alle sorti di Madame Bovary o Anna Karenina. Tutte queste donne sono accomunate da una caratteristica che, al giorno d’oggi può far forse sorridere, ma che in quell’epoca solleticava e non poco gli istinti sessuali dei galantuomini che affollavano i teatri più per passare il tempo che per vera passione. Sotto testi letterari o libretti operistici, si celavano biografie di signorotti, magari sposati, amanti di donne molto più giovani di loro; relazioni extraconiugali distanti anni luce dalla lirica delicata e passionale dell’amor cortese.

Il luogo più adatto per dare vita a queste passioni segrete di fin de siècle era il teatro d’opera, dove i protagonisti, nei quali il pubblico si identificava, potevano dare sfogo ad ogni pulsione socialmente e moralmente deprecabile. Si pensi al duca di Mantova nel Rigoletto di Verdi che nel sedurre ogni donna che gli capita a tiro, imbarbarisce l’ordine sociale nel quale vive.

Quelle opere scritte per un pubblico che viveva le relazioni amorose nell’obbligo dell’indissolubilità dell’alveo familiare, sono oggi riproposte in tutti i teatri del mondo, classici o costruiti con plexiglas e alluminio, con il filtro storico rivestito dai bagliori della modernità. Il pubblico di oggi, ha vissuto la liberalizzazione dei costumi sessuali, si reca all’opera in auto e pretende una bibita fredda tra un quadro e l’altro, registra sul suo iphone qualche spezzone di spettacolo che poi posta su Facebook, più per dimostrare di esserci stati che di averci capito.

In particolare, l’opera lirica in Arena di Verona, sta sempre più diventando un evento turistico, capace di attirare migliaia di visitatori da tutto il mondo, proprio e solo per il semplice fatto che nutrirsi di “italianità” è una delle grandi passioni del visitatore inglese, americano, tedesco o asiatico. A fronte di tale ricchezza, di tale incommensurabile fascino, esercitato dalla nostra cultura, risulta arcano il motivo della crisi del nostro terziario, tanto quanto il mistero che “move il sole e l’altre stelle”.

Con queste considerazioni un poco extravaganti, inizia la nostra stagione in Arena, ancora e come sempre a cavallo di quel venticello che spinge all’interno di un anfiteatro abbastanza scomodo, per chi è abituato alle rilassanti poltrone della Scala o della Fenice. Prima opera seguita, La Traviata di Verdi, per la regia di Hugo de Ana, che inaugura la stagione areniana. Allestimento nuovo e originale, quello di de Ana, che si configura come una specie di ring all’interno di una cornice di un quadro, alzata ed abbassata alla bisogna. Traviata è opera di dolore e passione repressa, contrasti intensi e d emozioni laceranti, che ben si addicono alla scelta registica di confinare i protagonisti all’interno di una “cornice”, appunto, come se fossero figure immobili di un quadro in continuo movimento. L’amore di Violetta per Alfredo, contrastato in pari misura dall’ambiente sociale e dalla malattia che la condurrà alla morte, è incastonata in una cornice, come un diamante lo è nella sua montatura. Un presagio di ineluttabilità del destino, ancora, ambientato verso la fine dell’ ottocento, epoca di travaglio e ribellione sociale che riporterà l’uomo ormai tecnologizzato all’interno di un’altra e ben più tragica cornice: il nazionalismo etnico.

Immaginiamo complesse per i cantanti le scelte registiche, con un palco inclinato di almeno 10/15° e una spaventata Lana Kos -Violetta legata e issata in alto! Bella promessa la Kos, che parte un poco indecisa, subisce le scelte di una regia sicuramente irrispettosa nei confronti dei cantanti e a tratti troppo pressante per via di controscene folkloristiche, ma poco efficaci. La Kos sembra forse un po troppo acerba per un ruolo tanto ostico, ma non sfigura affatto e lascia intravedere qualità che la porteranno “metaforicamente” in alto. Francesco Demuro è il suo bell’Alfredo, amante anche lui vittima di un sottile gioco di potere. La sua cornice, il suo ineluttabile destino, è definito dal padre che gli sottrae Violetta con l’inganno. Demuro possiede sicuramente una voce corposa che ben si addice al personaggio, anche se non è sembrato ai suoi massimi, ha convinto e suscitato numerosi applausi in un’Arena gremita fino all’inverosimile. Manca in Demuro, la capacità di muoversi sul palco per dar vita alla trasformazione innamorato estasiato-gabbato-scippato. Vladimir Stoyanov è un Giorgio Germont autoritario e senza sbavature, corposa la sua voce e sempre puntuale in ogni complessa entrata in scena, visto il ruolo abbastanza ingrato di padre che pensa al bene del figlio e per questo gli procura dolore. Notevole anche l’affiatamento con la bella Violetta, che dovrebbe suscitare – ciò accade e si percepisce -  nel vecchio padre un rigurgito di giovinezza. I costumi sono ispirati da quadri del poco noto pittore di fine ottocento, Eugenio Scomparini, che risultano in perfetta sintonia con la originaria ambientazione di Traviata. L’orchestra dell’Arena è diretta da Carlo Rizzi e, dispiace dirlo, non ci piace questo rallentamento dei tempi, a tratti soporifero anche se formalmente corretto. Rizzi non dialoga con i suoi cantanti e sembra più impegnato alla buca che al palco. In complesso una Traviata godibile, anche se proprio per via di quest’ultimo rilievo, a tratti un poco noiosetta!

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