Music

August 1, 2011

I Bon Jovi a Udine: the Right Medicine, mister President!

Jimmy Milanese

Chissà cosa penserebbe mio nonno, se fosse ancora vivo, nel vedere centinaia di ragazzi in viaggio per decine di ore, solo per un concerto Rock! Lui che dopo due anni di prigionia nel profondo nord della Polonia, alla fine della seconda grande guerra mondiale ci ha messo settimane per raggiungere casa. Un viaggio che gli sarà sembrato senza fine, tra linee ferroviarie distrutte, strade interrotte e continui trasbordi da un carro all’altro, ma che lo riportava sano e salvo dove la sua vita s’era interrotta cinque anni prima. Il viaggio, appunto. Gli uomini viaggiano per svariate e infinite ragioni. Ho un amico scrittore che da ogni posto visitato, cava un romanzo degno di questo nome, ma alla fine, descrive sempre e solo se stesso, magari a New York, oppure a Cuba, ma sempre se stesso. Il mitico Kerouac ci ha messo due mesi per attraversare gli Stati Uniti, che al tempo di quel viaggio, proprio uniti non lo erano. E li ha descritti on-the-road quei posti; ha dato dignità alla gente che passava il tempo a masticare noccioline e sputare cariossidi sotto il sole torrido del Nevada o alle prostitute di Buffalo che costavano meno di un Motel di infima classe.

L’altra sera, altra storia di viaggi: decine e decine di ragazzi avevano viaggiato giorno e notte da tutta l’Italia per arrivare a Udine, nel profondo nord del Friuli, e conquistare la prima fila sotto il palco del concerto di Jon Bon Jovi in Tour mondiale, ma solo una data in Italia. Sicuramente questo è un altro tipo di viaggio, ma pur sempre un viaggio, che secondo me vale la pena di raccontare. Erano 40.000 i “viaggiatori” che stavano stretti l’uno accanto all’altro dentro lo stadio friulano, che quel presidente della squadra di football non vorrebbe concedere ad altri se non ai suoi stipendiati pedalatori in mutande.

C’era Elisa e il suo ragazzo Marco, partiti in treno da Agrigento due giorni prima, perché se non hai soldi e viaggi in regionale, due giorni ci metti da Agrigento a Udine. Quella Agrigento dove sono ancora tanti i Bongiovi!C’era una famiglia da Santa Maria di Leuca: padre, madre e due figli di nemmeno quindici anni con la maglietta di Vasco e i i Jeans bucherellati, forse neanche troppo a caso. Nel 1986 usciva You Give Love a Bad Name e i due si innamoravano una sera di quell’estate per non lasciarsi mai, proprio come la rockstar del New Jersey, fedelissimo da diversi lustri alla prima e unica moglie: caso raro se non unico nel mondo della musica! C’era un gruppo di motociclisti da Vienna, con le Harley tatuate da chilometri macinati in giro per l’Europa ed ettolitri di birra nelle vene. Helmuth, 50 anni a dicembre, sostiene di conoscere a memoria i testi di quasi tutte le canzoni Rock scritte tra gli anni settanta e ottanta. Scommetto una birra e alla fine devo pagare da bere a tutta la compagnia, ma sono contento perché ho conosciuto un personaggio degno tanto di Lascia o raddoppia quanto di Easy Rider!

Ovviamente, c’erano loro, i Bon Jovi, con un esterrefatto Jon Bongiovi (chiare le origini italiane, vero?), che continuava a ripetere “Un-be-lie-va-ble”, perché mai si sarebbe aspettato tale quantità industriale di applausi e ovazioni, con le tribune che disegnavano il suo nome e la platea che mischiava un numero infinito di bandierine americane e italiane. Ognuno di quei quarantamila ragazzi avrà il suo viaggio da raccontare e postare e le sue foto del cellulare e i suoi video su youtube da inserire con i vari “mitico”, “bellissimo”, “figo” o “me-lo-farei-subito” da ripetere agli amici che ascolteranno, senza capire di che cosa si parla, perché come si fa a spiegare quell’energia che una tale moltitudine di gente è capace di generare?

Appunto, “Unbelievable”, è proprio incredibile che una band di cinquantenni, lontana parente di quel gruppo di capelluti ed atletici americani della East Coast che a metà degli anni ottanta rivaleggiavano per bellezza e temperamento con gli svedesi Europe, riesca ancora oggi a radunare tanta gente. Certo, i capelli sono più corti e bianchi, i vestiti meno eclatanti e la voce di Bon Jovi fatica parecchio (anche se meno che in altre occasioni), ma una regia a dir poco superlativa e una carica di vitalità che è marchio di fabbrica di questi quattro ragazzi, producono un concerto a dir poco sopraffino.

L’uscita dell’antologia su doppio CD Greatest Hits – The Ultimate Collection, aveva scatenato non poche proteste e malumori tra la base dei fans, insoddisfatti dalla riproposizione di gran parte del materiale già ascoltato nella prima raccolta Cross Road (1994) e l’esclusione di qualsiasi brano dall’album Bounce (2002) oltre al singolo Dry Country (suonato a Udine…). La scaletta del concerto, durato quasi tre ore, ripropone arricchendolo ilGreatest Hits, per la gioia del Fan Club che aggiunge spettacolo a spettacolo, grazie a una coreografia fatta di bandiere stelle e strisce e tricolore mai vista prima in Italia. Bon Jovi è visibilmente commosso e non manca di bissare I Lowe This Town, come gli capita di fare in rarissime eccezioni: Wembley, ad esempio!

Lunghissimi gli encore magistralmente eseguiti da Jovi alla voce e chitarra ritmica, Richie Sambora alla chitarra solista, Bobby Bandiera alla chitarra ritmica, David Bryan alle tastiere e Tico Torres alla batteria. Esaltanti i duetti con Bandiera o Sambora, i cui problemi personali che quasi lo avevano messo fuori gruppo, non hanno minimamente influito su una performance di altissimo livello, sotto l’acqua che non ha fatto mancare la sua presenza. Citiamo solo il trittico Bad Medicine/Pretty Woman/Shout, della durata di circa 10 infiniti minuti, da fa invidia al miglior Springsteen, rimandando al breve videoclip realizzato nel corso della serata. La miglior medicina per chi ancora ha da dire contro i megaconcerti negli stadi è questa marea di entusiasmo coinvolgente ma pacifico che dista anni luce dal POZZO (n.b. Presidente dell’Udinese calcio)lugubre e nauseabondo in cui lo sport nazionale si è ficcato, dear Mister President!

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