Music
July 11, 2011
Il 22 luglio, imperdibile, Lou Reed a Gardone
Marco Pontoni
Lou Reed non smette di stupire. A quasi 70 anni – è nato nel 1942 a Long Island, da una famiglia della piccola borghesia ebraica – mette in cantiere un nuovo disco nientemeno che con i Metallica, che è anche la colonna sonora del nuovo spettacolo di Bob Wilson, “Lulu”, ispirato al romanzo “Il vaso di Pandora” di Frank Wedekind, che ci riconduce immediatamente all’Europa dei primi del ’900. Nel frattempo, si appresta ad iniziare una tourné con una band di ben 8 elementi, che lo porterà, il 22 luglio, all’anfiteatro del Vittoriale, a Gardone riviera, in quella che fu la casa di D’Annunzio (dove già aveva suonato nel 2003).
Questa data – la più vicina alla nostra regione – rappresenta un’occasione unica per vedere in azione quello che viene considerato unanimemente uno dei musicisti più influenti della storia del rock, cosa ampiamente dimostrata dalle collaborazioni a cui frequentemente si presta, negli ultimi anni, con gruppi anagraficamente molto più giovani, dai Killers ai Gorillaz (senza dimenticare Antony, che ha contribuito non poco a lanciare). Non solo: in questo “The sweet tooth tour” Lou Reed, accogliendo la richiesta degli organizzatori, dovrebbe recuperare sonorità e atmosfere del periodo rock-jazz di fine anni ’70, con brani che non esegue da anni dal vivo come The bells, Leave me alone (che ha suonato recentemente con Yoko Ono), Charley’s Girl. C’è più di un motivo, insomma, per non farsi mancare questo concerto, che del resto avrà luogo in uno scenario impagabile, il Garda, recentemente gratificato dall’ennesimo riconoscimento, il 7° posto fra i laghi più belli del mondo nella classifica compilata da yahoo travel.
Lou Reed non smette di stupire, dicevamo. E mentre quest’anno fra i titoli dei temi per la maturità è comparso persino Andy Warhol, con la sua celebre, profetica frase “tutti in futuro portanno essere famosi per 15 minuti” (e il futuro è arrivato, è il Grande Fratello, è youtube) non si può non andare con la mente alla Factory di Warhol, appunto, la fucina della pop art dove i Velvet Undeground presero corpo, alla metà degli anni ’60. A guidarli, il duo Lou Reed-John Cale: da un lato un rocker fuoriuscito dalla Syracuse university e dai corsi tenuti dallo scrittor e e poeta Delmore Schwarz, già sottoposto dalla famiglia ad una cura a base di elettroshock per curare le sue “stranezze” (all’epoca si usava così), affascinato da tutto ciò che, agli occhi della società dell’epoca, appariva come la quintessenza del male, droghe e deviazioni sessuali comprese; dall’altro un musicista gallese di estrazione classico/contemporanea, trapiantato negli Usa assieme alla sua viola elettrica per suonare con l’orchestra di La Monte Young. Andy Warhol comprese subito il potenziale artistico del gruppo al quale aveva prestato una parte del suo loft come sala-prove, molto al di sopra di quello di una qualunque rock band; attorno a canzoni come Heroin, Venus in furs (ispirata ovviamente al romanzo di Sacher-Masoch), All tomorrow’s parties (cantata da Nico, l’algida cantante tedesca che già aveva recitato ne “La dolce vita” di Fellini), imbastì qualcosa di mai visto fino a quel momento su un palco, l’ “Exploding plastic inevitable show”, primo esempio di spettacolo totale dove la musica si mescolava ai giochi di luce, alle proiezioni, alle performance ideate dagli altri personaggi del “circo” della Factory, condite di fruste e cuoio. Troppo avanti, per l’epoca, troppo trasgressivo, troppo anomalo musicalmente, troppo lontano dall’ottimismo hippy che spirava dalla West Coast, dal “pace, amore, musica” di Woodstock. Dopo quattro album, i Velvet, senza clamore – e da tempo orfani sia di Cale che di Nico – si sciolsero. Anche la carriera di Lou Reed sembrava finita; ma ripartì invece alla grande, anzi, esplose, grazie all’inaspettata sponsorizzazione di David Bowie, che produsse, a Londra, in pieno periodo glam-rock, il secondo album solista del newyorkese, quel Transformer che contiene alcuni dei suoi hit più celebri, fra cui Walk on the wild side, omaggio notturno, di fascino struggente, ai personaggi della Factory, in particolare ai suoi travestiti. Da allora è stata una carriera di alti e bassi, ma con pochi, pochissimi momenti davvero inutili, e tante sorprese, dal conceptBerlin, una storia di amore e morte nella città del Muro che non sfigurerebbe accanto non ad altri album “narrativi” (come ad esempio The Wall) ma ad opere letterarie di autori molto amati da Lou come Hubert Selby jr. o Edgar Allan Poe, allo sperimentalismo di Metal machine music, quattro facciate di feedback chitarristici che vennero ritirate dal mercato dalla Rca dopo poche settimane, talmente lontane erano da tutto ciò che si può etichettare come “commerciale”. Passando naturalmente per l’elettricità proto-punk di Rock n Roll animal e l’elegia di Songs for Drella, commosso ma non retorico omaggio post-mortem a, di nuovo, Andy Warhol.
A quasi 70 Lou Reed, sposato da anni con un’altra grande artista, Laurie Anderson, è tutt’altro che defunto, nonostante le sue lunghe frequentazioni del “lato selvaggio” dell’esistenza. Vestito come sempre di nero, il volto devastato dalle rughe, la chitarra in braccio, continua a fare – come peraltro ha sempre fatto nel corso della sua carriera – ciò che più gli piace. Lontano dai trend e dalle classifiche ma ancora al centro della scena artistica, ancora vitale, ancora pronto a stupire, ora con la musica, ora con le sue altre passioni, come la fotografia e recentemente, il cinema (il documentario Red Shirley, nel quale racconta l’incredibile vita della cugina Shirley Novick, nata in Polonia, emigrata a New York negli anni ’30, scomparsa alle veneranda età di 102 anni).
Questa la formazione ufficiale del tour (ideato e organizzato, per la parte italiana, da due appassionati fan di Cremona, titolari di un’azienda dolciaria):
Lou Reed – Voce, chitarra
Sarth Calhoun – processing, fingerboard continuum
Kevin Hearn - Tastiere
Ulrich Kreiger – Sassofono
Tony Smith - Batteria
Rob Wasserman – Basso
a cui si sono aggiunti all’ultimo momento Toni Diodore alla chitarra e il chitarrista/violinista di origini armene Aram Bajakian.
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