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June 16, 2011

Degiorgis: viaggio fotografico nell’Islam nascosto

Tessa Moroder

Venerdì alla Galleria arge/kunst inaugura, a cura di Luigi Fassi, una mostra fotografica dedicata al rapporto tra la cultura islamica e la modernità occidentale nell’Europa contemporanea. Selma Alaçam (1980, vive e lavora a Karlsruhe, Germania) e Nicolò Degiorgis (1985, vive e lavora a Bolzano), si confrontano entrambe, attraverso il loro lavoro, con questo delicato tema, ognuno a seconda del proprio vissuto e delle proprie origini. Selma Alaçam analizza in molteplici modi nel suo lavoro il rapporto con la propria doppia identità di cittadina tedesca e turca, cresciuta in Germania secondo i modelli dell’educazione mussulmana. Nicolò Degiorgis, con la serie Hidden Islam, ha invece intrapreso un lavoro (e un viaggio) di ricerca fotografica nei luoghi di culto islamici nel nord Italia.

In occasione della mostra, riproponiamo l’intervista fatta a Degiorgis il 21 maggio 2010, quando presentò lo stesso progetto alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.

Quando un artista sudtirolese viene scelto per esporre alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, bisognerebbe fargli la ola; quando una settimana dopo viene pubblicata una sua serie di foto sul Financial Times Weekend, bisognerebbe fargliene due; quando poi si scopre che ha solo 25 anni, tre. E così via all’infinito.

Nicolò, visti i tuoi recenti successi, la faresti una ola?

Haha, si, anche se le cose stanno succedendo così velocemente, lavoro tantissimo e non ho neanche avuto il tempo di festeggiare l´uscita del servizio “Wild Alps” sul Financial Times. Ma sono veramente molto contento.

A parte la tua bravura, che nomino io, cosa ti ha aiutato ad arrivare a questo punto?

Direi che come sempre è un misto di cose, le mie esperienze precedenti (uno stage all’agenzia Magnum Photos a Parigi e una borsa di studio alla Fabrica di Benetton a Treviso), la possibilità che ho avuto di conoscere persone nel campo, il culo. Ma ciò che mi ha aiutato più di tutto è la mia testardaggine, il volercela fare a tutti i costi, dovuta principalmente all’esperienza scolastica non proprio edificante.

Tu hai iniziato l´università studiando il cinese, com’è nata la passione per la fotografia?

Beh, sono andato a Hong Kong a lavorare per un’azienda che produceva in Cina, il mio lavoro era di visitare le fabbriche e controllare la qualità dei prodotti. I capi delle fabbriche volevano portarmi al karaoke ogni sera per imbonirmi. Io non avevo tanta voglia e quindi ho iniziato a dire che dovevo fotografare le fabbriche, così è nato il mio primo servizio.

Quindi ti eri portato la macchina fotografica professionale?

Ma no, quelle prime foto le ho fatte con un a Canon Ixus, però non sono venute male.

Da quando fai foto?

Circa da tre anni e mezzo, però con delle pause in mezzo.

Come è nato il servizio “The hidden Islam” pubblicato su D di Repubblica e in esposizione alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (e ora a arge/kunst ndr)?

Sono arrivato in Fabrica in un periodo di cambiamento, erano appena stati eliminati i dipartimenti e quindi ero l’unico fotografo, non avevo un capo che mi potesse indicare il da farsi. Mi sono sentito allo sbaraglio e ho iniziato a girare il Veneto alla ricerca dei posti nascosti in cui la comunità musulmana si ritrova a pregare e ho iniziato a fotografarli. Il problema è stato che Fabrica è un posto un po’ ipocrita e quindi il mio progetto non è stato sostenuto.

Ipocrita in che senso?

Beh, ipocrita nel senso che Fabrica, che è legata a Benetton con tutti i colori, tutte le razze, tutti amici, ha creato la campagna elettorale di Luca Zaia della Lega. Il Corriere ne ha anche scritto un articolo…

(http://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/politica/2010/18-febbraio-2010/fabrica-multietnica-dietro-campagna-zaia-1602491513026.shtml)

Quindi il mio progetto non è stato sostenuto per ragioni politiche. Per fortuna poi sono stato preso dall’agenzia Contrasto e loro sono riusciti a venderlo. Con i soldi voglio continuare il progetto, per poterne fare un libro, ma è un lavoro è molto costoso, bisogna andare tutti i giorni per avere la fiducia delle persone da fotografare.

Perché il fotografo deve scomparire nello sfondo, non farsi notare dai soggetti che vuole fotografare?

Questo è un modo retrò di vedere il fotografo, lui non deve scomparire, le persone devono trovarsi bene con lui, sentirsi a proprio agio. Ogni tanto mi stupisco del risultato di certe foto, sembrano così naturali anche se io ero lì con un obbiettivo a 40 cm di distanza. Invece mi da fastidio quando vedo delle foto in cui il soggetto agisce diversamente o non è a suo agio perché sa di essere ripreso.

Quindi ciò che rende le foto così naturali è proprio la tua capacità di integrarti?

Mi è stato utile crescere in Alto Adige. Provengo da una famiglia di madrelingua italiana ma sono stato mandato alle scuole tedesche. Sono abituato a vivere situazioni in cui non sono mai completamente a mio agio, ero l’italiano per i tedeschi e il tedesco per gli italiani, non ho mai avuto il mio gruppo di riferimento fisso. Per questo adesso riesco ad adattarmi bene a tutte le situazioni, ma ci vuole comunque molto tempo per avere la fiducia delle persone che si fotografano.

Mi sono reso conto che crescere in Alto Adige, quindi senza un’identità definita, mi ha anche influenzato nella scelta delle storie da seguire. In qualche modo sono sempre storie che hanno a che fare con l´identità con l´emarginazione, che può essere sia quella dei musulmani in veneto che quella dei cowboy nelle Alpi.

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