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October 8, 2018

E se la Venere degli stracci arrivasse fin sulla Luna? Intervista a Giorgio de Finis

Francesca Fattinger

Siamo a pochi giorni dalla fine del progetto ‘Quale bellezza?’ che ha visto Michelangelo Pistoletto e la sua Venere protagonista di un intenso programma di talk e laboratori. 

Non perdetevi l’ultimo incontro il 13 ottobre! In occasione della giornata del contemporaneo c’è un programma ricchissimo che vi aspetta: dall’intervento di Don Rito Alvarez e del Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli alla cena interetnica allo spazio Lungomare fino al party finale allo Spazio Macello.

Qualche giorno fa ho potuto intervistare uno dei curatori più interessanti del momento, il direttore del MACRO di Roma Giorgio de Finis che il 30 settembre ha inaugurato il nuovo progetto chiamato “Macro Asilo”. Con le sue azioni scardina i sistemi consuetamente collegati ai musei e all’arte per rendersi produttore di dispositivi di ripensamento degli spazi e di creazione di potenziali nuove relazioni tra persone e parti della città. Così ha chiuso il suo intervento a Bolzano: “Io lavoro per la città restituendole spazi di dibattito e di crescita”.
In questa intervista ci racconta come si possa pensare l’arte come un modo per ripensare il nostro vivere la città e come spinta al dialogo e alla comprensione reciproca. Ci svela anche perché in una settimana di fuoco prima dell’inaugurazione a Roma è venuto fino a Bolzano: di questo e altro è capace Michelangelo! Leggiamo perché.

Giorgio, cosa significa occupare uno spazio oggi?

Non lo so perché, perché io non li occupo realmente. Quello del MAAM è uno spazio che hanno occupato altri e a me interessava la comunità che ci viveva, ma ci siamo adeguati alle regole dell’occupazione. Non è uno spazio della città di Roma, ma è un altro luogo con le sue regole, quindi siamo entrati lì bussando e ci siamo adattati a quelle regole. 
Quello resta uno spazio occupato con le famiglie che ci ho trovato, con tanti bambini piccoli che sono nati nel frattempo. Il MAAM si è aggiunto con tutto ciò che è arte dentro quell’occupazione abitativa. Abbiamo inserito lì un altro dispositivo che aveva tante ragioni e una era proprio quella di aprire le porte di questo spazio che per difendersi è costretto a chiudersi come un fortino Apache. L’arte attira pezzi di città che non avrebbero mai messo piede a Metropoliz e che forse non hanno neanche idea che esistano posti così in città. Attraverso l’arte queste città si parlano, sono degli innesti possibili che l’arte rende più facili.

Nelle tue interviste parli spesso di “ripensare gli spazi”, come si fa a dare voce a questo “ripensarli” e far sentire che c’è stata una trasformazione?

A me in realtà non interessano gli spazi, a me interessano i luoghi in cui ci sono gli umani. Gli spazi possono affascinarmi, li vado a cercare quando faccio il fotografo e il regista; non sono interessato a quello, ma ai pezzi di città. Mi occupo dei dispositivi che possono farsi città, che possono favorire un dialogo fra i pezzi di città che non si parlano. Marc Augé, che è famoso per la distinzione fra luoghi e non-luoghi, in parte superata, è anche autore di un’altra dicotomia che è quella tra città-mondo e mondo-città. La città globale è uguale ovunque, non solo nelle stazioni o nei centri commerciali, ma ormai è anche quella dei monumenti storici e del turismo di massa. Paradossalmente queste città che dovrebbero essere diversissime come il centro di Roma, Firenze, Venezia che sono sempre state considerate i ‘luoghi’ per eccellenza, oggi stanno diventando spazi molto simili, mentre c’è l’”altra” città che è mondo-città che invece è la parte un po’ trascurata da questo fenomeno. Le periferie sono meno interessanti per la globalizzazione, ma sicuramente ancora per poco, perché tende a fagocitare tutto e piano piano arriva. Sono spazi che invece sono caratterizzati da una maggiore vitalità e producono più sorprese, non è un caso che il MAAM sia nato all’estrema periferia di Roma. Il centro crea difficilmente sorprese, anche se adesso ci lavoreremo!

Come fare quindi a trasformare un museo in un dispositivo di incontri tra persone, il tuo maggiore centro di interesse?

Intanto occupandoci dell’arte viva, rinunciando cioè all’idea che il museo sia il mausoleo, la cattedrale. Togliendo questa funzione al museo, che ha anche le sue ragioni che si possono studiare, e a volte hanno un senso, soprattutto da Duchamp in poi – il museo serve anche per dire che un urinatoio è un’opera d’arte nel museo mentre fuori non lo è, cioè nel momento in cui si crea questa irruzione degli oggetti del quotidiano nel mondo dell’arte. Una scatola che sia una grande cornice bianca serve, però queste cose vanno superate. Soprattutto per il contemporaneo, gli artisti contemporanei sono vivi e oggi viviamo nell’epoca che Perniola ha chiamato dell’”arte espansa”, non c’è cioè un unico linguaggio ma milioni insieme. Ogni individuo è un mondo, un linguaggio, una tribù e quindi è molto complicato raccontare e scegliere. 
Già aprire le porte del museo e farci entrare gli artisti e le persone è importante. Il MACRO sarà un museo a entrata libera e già mi sembra un bel modo perché questo incontro possa avvenire: è molto più interessante vedere realmente come lavorano gli artisti. 

Ne abbiamo invitati tanti, questo museo lavora con un palinsesto giornaliero, abbiamo vari artisti che fanno e dicono cose all’interno del museo. Gli artisti sono ancora persone importanti, sostituiscono quello che dovevano essere le culture diverse e oggi lo sono sempre di meno e oggi a livello planetario questa differenza la portano paradossalmente queste singolarità. É un’iniezione che dobbiamo dare a questa società che è sempre più omologata dando voce a questi artisti che sono chiusi nei loro studi e che non sempre sono raggiungibili. Gli artisti sono come naufraghi su un’isola deserta, che lanciano messaggi in bottiglia sperando che qualcuno li raccolga. Quindi l’idea di concentrarli e metterli su un’altra isola, ma meno grande e meno deserta, magari fa bene alla società e anche agli artisti stessi.

Agganciandoci proprio agli artisti che saranno ospiti al MACRO parliamo di Pistoletto, protagonista di queste giornate a Bolzano. Come ha fatto a farti arrivare fino a qui in un momento per te così impegnativo? E che valore ha per te la Venere degli stracci?

Alla Venere sono particolarmente affezionato, un po’ come tutti, perché è diventata un’icona fondamentale della storia dell’arte; io ho avuto il piacere di avrò in tre occasioni. Le prime due al MAAM e al DIF, piccolo museo diffuso di Formello vicino a Roma, un museo pubblico con una piccola collezione di arte contemporanea che torna agli abitanti che adottano le singole opere. Formalmente è un museo pubblico e le opere appartengono al comune di Formello, ma da regolamento queste opere devono poter essere adottate dagli abitanti e tornano nelle case, nelle scuole, nei negozi, con però l’obbligo di chi custodisce e fruisce delle opere di farle vedere. Di aprire la casa una volta al mese o rendere possibile la visita all’interno degli orari di lavoro nel caso di uffici e negozi. E in quel caso c’è stato Michelangelo che ha inaugurato il museo con la Venere.
La terza occasione in cui abbiamo avuto la Venere è stato in occasione della mostra “Donne di colore” in cui artiste donne sono state invitate a riflettere sul rapporto tra arte, colore e femminile.
A Metropoliz ho chiesto esplicitamente la Venere e non un lavoro qualunque di Michelangelo, perché mi interessava rileggerlo alla nostra maniera. Il MAAM nasce dopo un anno di cantiere cinematografico a tema lunare, con la proposta ai metropoliziani di costruire insieme un razzo per andare sulla luna perché Roma è diventata troppo inospitale. Quindi alla fine di questo viaggio sulla luna è arrivata l’idea del museo e per me la Venere rappresentava la luna e gli stracci quello che stava nascendo, cioè un museo fatto tutto di pezzi cuciti insieme, come una grande cappa di Arlecchino. L’ho chiesta a Michelangelo spiegandogli che la leggevo con il testo di Michel Serres, filosofo francese che racconta la storia di Arlecchino che si presenta al pubblico con la sua cappa multicolore cangiante, zebrata, leopardata, colorata che Arlecchino si toglie mostrando sotto un’altra cappa fatta uguale ma fatta da altre pezze colorate multicolore cucite insieme. Questo spogliarello va avanti finché Arlecchino non rimane nudo e una volta nudo tutti scoprono che il suo corpo è totalmente tatuato, perché ha molto viaggiato e porta su di sé i segni del suo peregrinare. Quindi la pelle di Arlecchino è una mappa geografica. E Arlecchino continua a spogliarsi, anche della pelle, si spella come una cipolla e sotto anche i tessuti sono striati, finché Arlecchino non si trasforma in una massa di luce abbagliante, che è la maschera di Pierrot Lunarie. Si trasforma cioè nell’imperatore della luna, perché nel prisma la somma di tutti i colori dà il bianco. Quindi per me il bianco della Venere e gli stracci erano “Space Metropoliz” e il primo viaggio sulla luna e il MAAM che è una sorta di grande opera corale e mosaico collettivo ben si agganciava con la Venere degli stracci.
Quest’opera a Metropoliz si è caricata di un nuovo significato, perché partendo da un posto abitato da migranti ha continuato a viaggiare dando il benvenuto a chi raggiungeva il nostro paese. Estremamente interessante questo aspetto e anche il coraggio di Michelangelo di mettere in gioco un’icona dell’arte contemporanea che ha più di cinquanta anni e che è stata più che storicizzata per rimetterla in gioco continuamente dandole nuovi significati. Questo apprezzo di Michelangelo, perché non è vivo, è vivissimo!

Foto: Giorgio de Finis

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