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February 21, 2018

Berlinale – Utøya 22. Juli

Cristina Vezzaro

In concorso alla 68a edizione della Berlinale, Utøya 22. Juli, di Erik Poppe, sarebbe un thriller molto ben realizzato se non fosse che non è un thriller ma la ricostruzione dell’orrendo episodio che insanguinò la Norvegia il 22 luglio 2011.

Il film apre con un’esplosione improbabile nel cuore della capitale norvegese. Subito dopo si sposta sull’isola di Utøya, dove un gruppo di ragazzi è in campeggio estivo. La protagonista Kaja (Andrea Bernzten) riceve una telefonata dalla madre, che è preoccupata. Lei la rassicura subito: “Siamo su un’isola, mamma, è il posto più sicuro che possa esserci.” Va alla ricerca della sorella per passarle la madre, ma la vede solo che passa, di ritorno da un bagno in mare, diretta verso la loro tenda. La segue, e le due hanno un battibecco di quelli tipici tra fratelli. Fatto sta che Kaja va da sola verso il capanno e il tendone per mangiare insieme agli altri, la sorella si trattiene ancora nella loro tenda.

Fin qui tutto nella norma. I ragazzi parlano, chiacchierano, ridono, fanno battute. Fino al primo sparo. Il secondo. Il terzo. Nessuno ancora si rende conto di niente. Solo quando iniziano a vedere delle persone correre viene loro il dubbio che stia succedendo qualcosa di serio. Il tempo per il pericolo di farsi strada nelle loro menti, e si uniscono agli altri che si rifugiano nel capanno centrale. Il panico inizia ad assalirli. Non sanno cosa stia succedendo, non sanno da dove provengano gli spari, non sanno quanta gente stia sparando né perché. Sentono solo il pericolo, che si avvicina. Alcune pause sembrano mettere fine alla situazione, ma gli spari riprendono subito dopo. Kaja è disperata all’idea che la sorella sia da sola. Da sorella maggiore si sente la responsabilità di proteggerla. Quando il capanno non è più un rifugio sicuro e i ragazzi scappano a manciate verso il bosco, la tensione si fa intollerabile. Ragazzi che cadono, ragazzi che cercano rifugio, storie di grande umanità e solidarietà nelle menti e nei cuori di questi ragazzi ancora così giovani. Il corpo e la mente che cedono ma poi si riprendono e cercano la salvezza. La lucidità di spegnere i cellulari ma poi le parole al telefono con madri disperate. La disperazione e l’incredulità per gli aiuti che non arrivano. Ragazzi abbandonati a loro stessi in una situazione di terrore e follia pura.

I morti a Utøya saranno 69; quelli di Oslo dieci. I feriti innumerevoli. Quelli gravi moltissimi. Tutto causato dalla follia di Anders Behring Breivik, un trentaduenne simpatizzante dell’estrema destra.

Erik Poppe sceglie di mostrarci tutta questa follia attraverso gli occhi di Kaja (una bravissima Andrea Bernzten) in base alle testimonianze raccolte da chi sull’isola c’era. Girato in un unico piano-sequenza in tempo reale, lo spettatore è inevitabilmente colto dal terrore, che sembra placarsi quando realizza che l’esito tragico già lo conosce, salvo esserne colto nuovamente non appena ricorda che tutto questo è successo e può succedere ed è più vero di qualsiasi thriller. La durata infinitamente lunga dell’attacco e la conseguente possibilità per il folle di falciare altre e altre vite umane sono opportunamente evidenziate alla fine del film, che segnala come una commissione abbia determinato che le forze di polizia hanno evidentemente fallito nel prevenire e affrontare gli attacchi e sono state incapaci di intervenire tempestivamente per salvare più vite umane.

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