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August 23, 2017

Marco Dessì: la disciplina del creare

Mauro Sperandio

“C’è un filo rosso che lega tutta la mia produzione ed è rappresentato da una grande attenzione per il dettaglio” mi dice Marco Dessì. Allora, volendo anch’io badare al dettaglio, non posso non notare come la compostezza del talentuoso designer trovi nello sguardo vivacissimo e nel guizzo “educatamente anarchico” un curioso contrasto. Sarà per l’adolescenza impavida e per la curiosità senza preconcetti, ma il giovane designer conquista l’attenzione tanto con le parole, quanto con il tratto dei suoi lavoro…

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Se il tuo lavoro è di certo interessante,non è da meno la tua formazione…

Sono cresciuto a Merano, da padre di madrelingua italiana e madre tedesca. Anche grazie ai miei nonni ho respirato e gustato, nel vero senso della parola, entrambe le culture. Dopo le scuole medie non avevo intenzione di proseguire gli studi e nemmeno di rimanere a Merano. Ho scelto dunque di trasferirmi a Vienna per frequentare l’apprendistato per diventare odontotecnico. Questa scuola mi ha offerto la possibilità di sviluppare una certa manualità e di confrontarmi con le varie fasi produttive, anche complesse, e con la lavorazione dei differenti materiali richiesti dal lavoro odontotecnico. Finiti i sei anni di apprendistato, decisi di rimanere a Vienna, dove nel frattempo, grazie alla conoscenza di alcuni architetti, avevo cominciato a dedicarmi alla realizzazione di plastici e modellini per l’architettura. Questa esperienza, un antico desiderio di dedicarmi ai fumetti e alla grafica e l’incoraggiamento dei professionisti per i quali lavoravo, mi spinsero a tentare l’esame di ammissione all’Università di Arti applicate di Vienna, all’epoca Meisterschule e dunque non vincolata al possesso di un diploma di maturità. Riuscii ad entrare nella classe di Bořek Šípek, e cominciai quindi a studiare design industriale. Dopo gli anni dell’apprendistato, con ritmi simili a quelli del lavoro, tornare a studiare e godere di una certa libertà mi ha fatto vivere una delle più belle esperienze della mia vita da adulto.

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Ammiro il fatto che tu, oltre a progettare, abbia anche delle competenze tecniche che riguardano il saper costruire. Credo sia un plusvalore in un mondo di teorici…

Il designer svolge una professione concreta e, nell’accostarsi ad un nuovo progetto, non può prescindere dal considerare i materiali, le possibilità tecniche e produttive delle aziende, siano esse industrie o imprese artigiane. Un po’ di manualità e di dimestichezza con i sistemi di produzione sono indispensabili per realizzare progetti “intelligenti”, ovvero rispondenti ad un certo modo di usare i materiali, funzionali e con un equo bilanciamento dei costi di produzione. Non stupisce, dunque, che siano molti i designer che provengono da formazioni ed esperienze professionali tecniche ed anche artigianali.

 

Rispetto all’equilibrio tra bello e utile, credi che in generale i designer siano “onesti” nel non indulgere nell’apparenza a discapito della funzionalità?

È difficile valutare cosa è bello oppure ha “stile”. Ci sono dei criteri per giudicare la qualità di un pezzo, quelli di cui ti ho poc’anzi accennato, mentre per giudicare ciò che rende un pezzo “di design” i confini sono meno definiti. Personalmente, credo che si possa parlare di design quando un oggetto dimostra una spiccata componente emozionale, tale da attirare chi lo osserva, suscitando domande e curiosità e da creare un’affezione durevole nel tempo. Se da un lato abbiamo una forte ricerca della componente estetica, soprattutto grazie alla corrente dei designer-makers, troviamo dal lato opposto un nuovo minimalismo, che si pone come reazione alla grande produzione di mobili in plastica che ha contraddistinto gli anni Ottanta e Novanta.

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Cosa ispira il tuo lavoro?

Sono interessato a come e di che cosa sono fatte le cose. Mi affascinano gli oggetti di uso comune, anche quelli apparentemente banali, come un cesto di paglia o i campanacci che si legano al collo delle mucche per citarne  due rusticali notati in montagna proprio in questi giorni . Questa mia curiosità mi fornisce continui stimoli creativi, che stanno alla base dei miei progetti. Un dettaglio tecnico, decontestualizzato, entra a far parte del mio vocabolario, rivelandosi applicabile a nuovi progetti. Le officine e chi vi lavora sono per me grandi fonti di ispirazione. Quando mi commissionano un lavoro, il confronto con il personale dell’azienda mi permette di identificare, già nei primi contatti, la personalità della committenza. Il mio compito sta proprio nell’interpretare questa identità secondo la mia visione. Spesso è l’intuito a spingermi nella giusta direzione.
Ho lavorato molto con aziende dalla lunga tradizione, come Wittmann e Lobmeyr, che possiedono ricchissimi archivi. Nella loro storia ho trovato ispirazione per nuove creazioni, non vincoli.
Aziende con meno storia, o che ti concedono maggiore libertà, mi permettono di proporre idee più radicali. Dopo aver lavorato molto con le aziende, sento ora il desiderio di tornare allo spirito che contraddistingueva l’inizio della mia attività, ovvero quello della sperimentazione creativa.

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Indipendentemente dalla presenza di collaboratori, quello del designer, un po’ come quello dell’artista, credi sia un lavoro solitario?

Ho strutturato la mia attività in modo da lavorare da solo, ma in costante collaborazione con una rete di abili professionisti ai quali mi posso affidare per affrontare specifiche esigenze. Poter vivere in tranquillità il momento creativo e allestire la squadra giusta per ogni progetto è per me una grande libertà.

Considerate le tue origini, la tua formazione e il fatto che vivi da parecchi anni a Vienna, quale connotazione geografica pensi caratterizzi il tuo lavoro?

C’è un filo rosso che lega tutta la mia produzione ed è rappresentato da una grande attenzione per il dettaglio. Questa sensibilità è frutto di uno studio attento di tutto ciò che mi trovo davanti e che cattura la mia attenzione. Credo che ciò derivi dalla mia “doppia cultura”, ovvero quella sudtirolese, più razionale e concreta, e quella meridionale, più verace ed anche emotiva. Nascere in una famiglia mistilingue mi ha portato a non sentirmi parte dell’uno o dell’altro gruppo linguistico in maniera esclusiva e, ti confesso, per capire che questo status poteva portarmi dei vantaggi ci ho messo parecchio tempo… L’esercizio della comprensione dei diversi linguaggi, a cui sono sempre stato abituato, è infatti fondamentale anche nel design. Dovendo trovare una connotazione precisa, mi definirei altoatesino, cioè figlio di quel mix unico di persone, lingue e paesaggi che caratterizzano la nostra terra.

Foto: © 1 Rosa Merck; 2,3,4,5 Marco Dessì

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