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February 14, 2017

Berlinale 2, 2017: Una mujer fantástica – ovvero la dignità dell’identità

Cristina Vezzaro

Finalmente arriva il primo film da Orso di questa biennale, è il cileno Una mujer fantástica, di Sebastián Leilo, prodotto tra gli altri da Pablo Larrain. Orlando (Francisco Reyes) è un uomo vicino alla sessantina, proprietario di una piccola azienda di tessuti. Quando lo conosciamo esce dalla sauna e torna in ufficio mentre si prepara a portare fuori a cena la sua donna, Marina (Daniela Vega), che compie gli anni. Di anni ne ha almeno una ventina in meno di lui, ma la coppia sembra molto innamorata. Tornati a casa fanno l’amore, ma durante la notte Orlando si sente male. Marina si sveglia e lo aiuta a vestirsi per portarlo in ospedale. In macchina Orlando ha ancora una crisi, e in ospedale arriverà troppo tardi.  
Quella che sembra una storia fatta e finita non è che l’incipit della storia vera e propria. Ben presto si capisce infatti che Marina è l’amante per cui Orlando ha lasciato la moglie e i figli. Sembra doversi addebitare a quello il disagio che la donna dimostra ad assumere il ruolo ufficiale di compagna dinnanzi alle formalità che ogni decesso richiede. Ed è solo poco a poco che si svela la vera “colpa” di Marina, quella di essere un transessuale.
Oltre a dover subire la perdita dell’amore, i parenti di Orlando, furiosi, vorrebbero farle perdere anche la dignità, senza riuscirci. È anzi proprio la dignità di chi con dolore e sofferenza si è fatto strada verso la propria identità, fuori da quella che altri definiscono “normalità”, che prevale su tutto e restituisce a Marina l’amore che le è stato tolto.
Magistrale interpretazione di Daniela Vega, questo è un film che di certo non rimarrà a bocca asciutta alla cerimonia di premiazione qui a Berlino. Pressoché perfetta nella costruzione (peccato solo per la scena finale), anche la regia potrebbe ambire a un premio.

Sempre in concorso, ma con risultati molto più modesti, Viceroy’s House, di Gurinder Chadha, la regista di origini indiane che ricostruisce molto liberamente le vicende di Lord Mountbatten e del ritiro della Gran Bretagna dall’India. Polpettone da serie TV, più che da Berlinale, sembra concentrarsi troppo sulla riproduzione della grandeur coloniale che sulla narrazione, con tanto di melensa storia d’amore a lieto fine. Un peccato che la regista non abbia scelto di raccontare la storia della sua famiglia, da cui pure ha evidentemente tratto spunto, che nel grande esodo degli indiani costretti a scegliere tra India e Pakistan perse un membro. 

Risultato enigmatico infine per Pokot, della polacca Agnieszka Holland, film che di certo non manca di ritmo e capacità narrativa, ma che nella trama in quanto tale perde invece terreno. Sorta di eco-thriller sullo sfondo di una Polonia rurale estremamente violenta, pro-caccia e misogina, Duszejko (Agnieszka Mandat) combatte una lotta persa contro una tradizione e un sistema su cui non può vincere. Peccato lungo il cammino perda credibilità anche il personaggio.

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