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February 12, 2017

Berlinale 2017 – T2 Trainspotting

Cristina Vezzaro

La Berlinale apre come sempre con grandi nomi, a volte non sempre all’altezza. È il caso di The Dinner, di Oren Moverman, una cena-situazione in famiglia con ospiti di gran calibro (Richard Gere, Laura Linney, Steve Coogan, Chloë Sevigny). Il confronto famigliare (tra fratelli in questo caso) si svolge nel vissuto di un dramma causato direttamente dai figli delle due famiglie, rispetto al quale i genitori avranno posizioni diverse, chi protettivo a ogni costo, chi alla ricerca di verità per i ragazzi. Un déjà-vu per il pubblico italiano, che la storia la conosce da “I nostri ragazzi”. A questa storia, che di per sé farebbe già un film, si aggiungono qui con flashback un po’ pesanti e artificiali diversi temi, quello della malattia mentale, quello delle relazioni di coppia, quello della memoria famigliare, temi che allungano (inutilmente?) il film senza consentire allo spettatore di focalizzare l’attenzione. A parte la recitazione di Steve Coogan, notevole anche nei limiti della regia, il film che sembrerebbe volersi ispirare allo scandinavo Festen – Festa in famiglia, alla fine non convince del tutto.

Final Portrait, il film di Stanley Tucci, con Geoffrey Rush e Armie Hammer, è un film ambientato negli anni ’60 a Parigi che si nasconde dietro l’espediente narrativo di un’autobiografia dell’uomo che posò per l’ultimo ritratto di Alberto Giacometti. È così che il film ricostruisce una ventina di giorni nella vita dell’artista, poco prima della sua morte, tra arte, moglie scontenta e amante-prostituta capricciosa, fratello e modelli. E se per certi versi mette in luce con una fotografia sicuramente riuscita le abitudini di lavoro del maestro, per altri non mostra un’evoluzione del Giacometti-eroe, personaggio che rimane involuto su se stesso in una pur buona recitazione di Geoffrey Rush, che alla fine risulta un po’ prevedibile e non granché interessante.

Decisamente più piacevole T2 Trainspotting, l’attesissimo sequel che “non volevamo deludesse il pubblico”, spiega Daniel Boyle, e che infatti non lo delude. A distanza di 20 anni, tutti noi, come Jonny Lee Miller accusa Ewan McGregor a un certo punto del film, diventiamo “turisti nella nostra gioventù” e ripercorriamo le nuove-vecchie vicende del quartetto accompagnato da una nuova giovane (Anjela Nedyalkova) in una Edimburgo che per loro ancora fatica a diventare il paradiso (“non siamo ancora stati fagocitati dal fantastico processo di gentrification”, così Simon giustifica l’aspetto spettrale del pub che gestisce quando Renton si ripresenta in città).  Non segnerà un’epoca come fece Trainspotting, ma rimane decisamente piacevole da vedere.

Sul piano più impegnato il film (il quarto) del regista franco-senegalese Alain Gomis, Félicité, ambientato in una Kinshasa dove la vita della protagonista (come di molti) è precaria. Cantante la sera per un pubblico locale, si guadagna da vivere così, ma anche la riparazione di un frigorifero va negoziata per evitare di spendere troppi soldi. Un incidente del figlio la fa correre in ospedale, dove scopre che per l’operazione che gli salverà la gamba bisogna raccogliere un milione di franchi congolesi. Inizia così la maratona di Félicité (Véro Tshanda Beya Mputu) alla ricerca dei soldi, in una città fatta di poca solidarietà e tanta sopravvivenza, dove nemmeno il padre del ragazzo, ferito nell’orgoglio di essere stato lasciato, interverrà per aiutarli. Solo Tabu, il vicino innamorato (Papi Mpaka) che da tempo vorrebbe Félicité (ma nel frattempo non disdegna tutte le altre), non l’abbandona, e si guadagnerà così un posto al suo fianco. Raccontato con grande umanità, nell’asciutta narrazione di una vita senza fronzoli, il film è decisamente riuscito, sebbene anche questo (come già The Dinner) si trascini un po’ oltre quella che poteva essere la fine.

Su tutt’altro piano è la commedia Wilde Maus, di e con gli austriaci Joseph Hader e Pia Hierzegger, le vicende di un cinquantenne licenziato da un posto prestigioso di critico musicale presso un importante quotidiano viennese che si ritrova stretto nella morsa della propria crisi esistenziale e della crisi della compagna, che dopo anni di tentativi non riesce ancora a rimanere incinta. In una divertente (seppure prevedibile) escalation di eventi, non mancherà l’happy ending. 

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