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January 26, 2017

L’arte e la necessità di interrogarsi sulle emergenze sociali: Invernomuto [Museion Prize 1]

Max Silbernagl

Invernomuto è il duo composto dai giovani artisti Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi. Stesso il nome proprio sulla carta d’identità, diverso l’approccio all’arte che li rende, in questa liaison artistica nata nel 2003, perfettamente complementari. Simone e Simone, dalla loro Piacenza arrivano a Bolzano tra i finalisti del Museion Prize 1. I loro progetti in gara, “Malù – Lo Stereotipo della Venere Nera in Italia [censored]” e “Tabù” (ora in mostra nel museo bolzanino fino al 12 marzo 2017, insieme a quelli degli altri finalisti Sonia Kacem, Verena Dengler e Julia Frank), sono lavori forti, che in modo critico si interrogano sul ruolo della donna africana durante il colonialismo (e sulle conseguenze che questo ha ancora oggi) e sul razzismo. Temi sicuramente delicati, ma sui quali – mai quanto oggi – è fondamentale riflettere e interrogarsi, anche attraverso l’arte. 

Perché avete deciso di fondare il gruppo Invernomuto, e come vi siete incontrati?

Ci siamo incontrati su un treno che andava da Piacenza a Milano, stavamo leggendo entrambi il Neuromante di William Gibson, Bertuzzi ascoltava i Clouddead in cuffia, Trabucchi i Coil. Lì è nato Invernomuto.

In che modo siete complementari, se lo siete?

Siamo assolutamente complementari: la disciplina di Simone è speculare all’indisciplina di Simone.

 Come è nata l´idea per i due progetti presentati al Museion Prize, “Malù” e “Tabù”?

Sono nati in due momenti diversi: “Malù” è stato realizzato in occasione della mostra “Nero Su Bianco”, all’American Academy in Rome, a cura di Lyle Ashton Harris, Robert Storr e Peter Benson Miller. I tre curatori erano interessati alla nostra ricerca legata al colonialismo italiano e al modo in cui l’avevamo processata in Negus (feature film di 70 minuti ultimato nel 2016 e ciclo di opere iniziato ormai 4 anni fa). Questa ricerca si è tramutata in un vortice dal quale è praticamente impossibile uscire. Nel Natale 2014 Simone Trabucchi, ha ricevuto in dono un album di fotografie scattate e acquistate dal suo bisnonno in Etiopia nel 1937 mentre lavorava presso una ditta impegnata nella costruzione della famosa ferrovia. Il dono di questo album ha aperto interessanti ragionamenti, oltre a essere simbolicamente un macigno della storia da processare. In questo album, come in molte di quelle raccolte di foto che tornavano a casa insieme ai soldati, è facile identificare alcuni soggetti ricorrenti: paesaggi, monumenti, animali e donne.
I ritratti di donne si possono dividere in tre: ritratti in posa a mezzo busto, ritratti a figura intera e close-up “pseudo” anatomici.
La catalogazione pseudo-scientifica divenne il principale strumento per testimoniare l’inferiorità genetica africana, oltre che per costruire delle solide basi “scientifiche”, da cui divulgare la dottrina di un’antropologia razzista, a giustificare così il dominio imperialista del fascismo.
Il corpo della donna diventa quindi un altro paesaggio da conquistare, parte integrante del pacchetto di immaginario fascista della vita nelle colonie, su questo corpo si gioca il colonialismo italiano, e probabilmente non solo quello.
In questo clima nasce una mentalità che tutt’ora è difficile da sradicare nell’uomo medio italiano, una mentalità che prescinde gli schieramenti politici tra l’altro.
Topos dell’esotismo, il corpo alieno, trova sfogo negli anni ’60 nella rappresentazione dei Mondo Movies, una specificità tutta italiana: pseudo documentari dalle tematiche shock come sesso & violenza ma in una chiave tipicamente cattolica, ovvero mostrano nefandezze o “esoticità” accompagnate da un commento moralizzante. Redimono ciò che sembrano condannare. 
“Mondo Cane” (Gualtiero Jacopetti, Prosperi, Cavara, 1962) oggi non passa in tv, ma rimane vivo nelle pieghe della storia minore del cinema italiano, eppure è un film unico seppur controverso, che ha dato vita ad un sottogenere che racconta molto della società italiana.
Ancora una volta stiamo parlando di storie minori, stiamo parlando di cinema di provincia, di sale buie e un po’ proibite, dove però un immaginario deformato e deformante si è perpetuato, continuando quella tradizione che è la base dell’inconscio razzista.
“Tabù” nasce su questa linea, come un atlas in fieri di grafiche razziste, che altrove sono state abbandonate da tempo, in Italia invece campeggiano fiere ed ignoranti.

Come descrivereste la relazione tra i due progetti?

L’impianto coloniale e intrinsecamente razzista dei materiali che abbiamo utilizzato, assolutamente Made in Italy, che nelle scuole tutt’ora tace sulla storia del colonialismo, sempre più populista, razzista ed egoista. 

Secondo voi, perché la “Hottentot venus” è diventata così popolare e perché era così desiderabile e desiderata? Oggi le cose sono cambiate? Come?

Sul desiderabile e desiderata non sarei così sicuro. 
Stiamo parlando di una storia incredibilmente drammatica e molto specifica: Saartjie Baartman, la così detta “Hottentot venus”, venne esibita come un “fenomeno da baraccone”, sia da viva che da morta, ci volle Nelson Mandela per darle un briciolo di umanità e darle una degna sepoltura.
L’esibizione e l’ossessione degli europei per il suo corpo fu la base per il così detto razzismo scientifico.
La “Venera Nera”, come figura retorica, viene spesso utilizzata per descrivere bellezze provenienti dal continente Africano. È chiaro che quando si usa questo termine per descrivere una escort marocchina di 18 anni, non si tiene in considerazione la storia di Saartjie Baartman, ma è bene ricordare l’origine di un termine così evocativo perché nella sua storia si smaschera l’impianto razzista.

Che cosa vi ha guidato durante il processo di creazione e realizzazione del progetto e perché vi affascina così tanto questo tema?

Il tema non ci affascina, ci sono emergenze sociali che rendono certi lavori una necessità e sono quindi mossi più da un’urgenza che da una fascinazione.

Qual è secondo voi il vostro punto di forza, e perché pensate di poter vincere il Museion Prize?

Il nostro punto di forza è la capacità di costruire solide crew, sapere unire persone che possano affrontare progetti diversi, con competenza, energia e coraggio. Questo rende il nostro lavoro non autoreferenziale e mutevole.

Se doveste vincere, come e in cosa pensate di investire il premio?

Nella ristrutturazione del nostro nuovo studio. E in una bella cena/festa con tutte le persone che ci hanno aiutato negli ultimi anni.

Avete già in cantiere nuovi progetti per il futuro? Ci svelate qualcosa?

Stiamo ultimando un documentario sulla tradizione dei Pico, sound system artigianali nel nord della Colombia.
E poi c’è “Calendoola”, la nostra serie tv, il primo episodio è stato appena ultimato, stiamo lavorando ad un sito web e ad un libro d’artista che possano introdurre a questa nuova serie.

Foto: Invernomuto 

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