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November 14, 2016

“La cucina” di Wesker-Bernardi debutta al TSB tra rock n’ roll, sogni e aspirazioni, montagne di piatti e fragilità umane

Claudia Gelati
Dal 10 al 27 Novembre il Teatro Studio di Piazza Verdi si trasforma in una vera e propria cucina, per ospitare appunto “La Cucina”, piéce teatrale tratta dall’opera del drammaturgo inglese Arnold Wesker. La regia è firmata da Marco Bernardi che dirige un cast di ben 25 interpreti tutti nati o residenti in Trentino Alto Adige; un coro di personalità sapientemente cucite insieme in questa commedia che sì, ci fa sorridere, ma lascia anche grande spazio alla riflessione.

Giovedì scorso ha debuttato, presso il Teatro Studio, la prima de “La Cucina”, piéce teatrale scritta da Arnold Wesker, drammaturgo londinese figlio di immigrati ebrei, autore di oltre quaranta testi per la scena in cinquant’anni, dal 1957 al 2007. In gioventù Arnold sperimenta quasi ogni tipo di lavoro, dal falegname al pasticcere; per poi diventare un protagonista del teatro inglese ed internazionale della seconda metà del novecento. Il drammaturgo outsider, fuori dal coro; un’operaio della scrittura che ha sempre indagato con maggiore interesse i temi sociali ed interpersonali: il lavoro, i sogni, le fragilità, il fallimento di un rapporto, la vecchiaia e la morte. Storie di popolo.

Per quelli che non lo sanno ancora, il Teatro Studio, è quella sala due rampe di scale più sotto l’ingresso del teatro di Piazza Verdi. Uno potrebbe pensare che si tratti di un teatro di serie B, ma non è assolutamente vero: è una piccola, accogliente sala, con l’ingresso, letteralmente, a due passi dal palco-non-palco. L’atmosfera del teatro è sempre unica, ma quando ti siedi sulla tua bella poltroncina rossa del teatro studio, sembra quasi di stare nel salotto di casa… ecco si, forse un pelo più grande. Ma comunque, è uno spazio raccolto e sembra quasi di conoscersi tutti; di essere lì  con i tuoi quattro amici, in attesa che le luci scendano lentamente e la magia inizi. Tricco, Tracco, scendi, sali, conti i numeri ed elenchi l’alfabeto: per questo giro il mio posto si chiama I 19. Il teatro studio lo avevo già largamente apprezzato nella scorsa stagione teatrale: con “Brattaro Mon Amour”, noir tragicomico che proponeva un giallo all’ombra del paninaro di via Resia e che cercava di indagare all’interno delle dinamiche bolzanine. 

Il palco, in questa sala, non si nasconde altezzoso dietro il canonico sipario, bensì si mostra per quello che è da subito. La scenografia è notevole: sembra di essere stati in viaggio nella macchina del tempo per poi cadere direttamente al centro di una vera e propria cucina londinese, di un enorme ristorante del West End, a metà degli anni ’50. Ci sono persino quelle porte speciali morbide e con gli oblò, perfette per quando hai le mani impegnate a reggere una montagna di pentole, mestoli, piatti e piattini… Le luci si spengono lentamente, aspettando l’ingresso degli ultimi ritardatari. Silenzio!

Per la seconda volta di seguito, dopo il Wonderland di Ciprì e Bollani, il teatro ci offre la possibilità di ficcare il naso dove solitamente non si fa. Ecco, insomma, non è che ci capita proprio tutti di spiare (legittimamente) all’interno della cucina di un ristorante. Noi, stiamo dall’altra parte; siamo il signor e la signora X che, comodi in sala, ordinano due nodini di vitello e una frittura di pesce. Ma quando la comanda sparisce dietro quelle porte, cosa succede? Ce lo siamo chiesti tutti, almeno una volta. Da bambini forse ci sarà anche capitato di aspettare, con crescente fervore, che quelle porte si riaprissero magicamente. Spingevamo l’occhio sempre più in là, sempre per vedere oooltre la porta. Oh, ecco lo chef. “Mamma, papà, voglio fare lo chef” ripetevamo in loop. Intonavamo suoni di stupore, gli occhi brillavano, il cuore batteva forte e… pum: cadevamo puntualmente dalla sedia, come sacchi di patate. Da adulti no: composti e civilini, il mondo oltre quelle porte non ci appartiene. Forse.

Bzzzz, le luci del cucina si accendono, fredde come quelle al neon. Uno dopo l’altro, arrivano alla spicciolata i membri dello staff: il primo è il lavapiatti Dimitri e l’ultimo lo Chef Leo. C’è il macellaio, l’addetto alle verdure e quello che frigge il pesce, i pasticceri francesi e l’addetta ai caffè.
Nella “Cucina” di Wesker-Bernardi, lo ore si susseguono velocemente: la calma piatta dell’arrivo, il ballo liberatorio sulle note di Rock Around The Clock di Bill Haley che risuona alla radio; il pranzo frugale dello staff l’inferno dell’ora di punta; l’abbiocco pomeridiano e il turno serale.

Ogni personaggio è perfettamente delineato e gli attori danno voce a questo groviglio di sentimenti e aspirazioni: le cameriere “entusiaste”, i cuochi scrocconi alla ricerca di polli e dolci Religieuse, l’aiuto cuoco burlone e il meeting pot di nazionalità. C’è posto per tutti: inglesi, irlandesi, francesi e tedeschi; ma nella pièce ambientata negli anni ’50, si respira ancora l’eco lontano della guerra.
Gli anni cinquanta non si vedono solo nella scena e negli abiti, opera di Roberto Banci, ma anche e sopratutto nelle parole dei cuochi: si parla del futuro e di drammi d’amore, all’ombra di palazzi e fabbriche che crescono sempre più velocemente.
Cuochi, impersonati di un cast giovane e dinamico, che infonde energia ed è in grado di alternare allegria e riflessione. Particolarità di questo cast è che si tratta di una neonata compagnia teatrale professionale della Regione Trentino Alto Adige: difatti, gli attori sono tutti nati o residenti qua, nella “nostra” regione. L’esperienza innovativa proseguirà con altre due edizioni, sempre attraverso un bando. E questa, a mio avviso, è una grande idea: un modo per guardare finalmente nel giardino di casa nostra, per apprezzare i talenti che nascono o abitano nelle zone limitrofe. Non è che i talenti li coltivano in serra solo a Hollywood, eh.

Insieme alle ore, tra i fornelli ardenti, si susseguono bisbiglii e pettegolezzi, sogni e aspirazioni, risse e conflitti. Dunque, sembra proprio che, in un epoca in cui la televisione propina programmi di cucina ad ogni ora, e in cui ci divertiamo a fingerci chef stellati per una manciata di like, questo coro di voci si impegni a smitizzare il mondo della ristorazione per riconsegnarlo al quotidiano. Quotidiano che a volte ci “illumina di immenso”, scriveva qualcuno, e a volte spedisce la nostra anima dritta all’inferno. Perché la cucina qui, in fin di conti, è solo uno spazio fisico, una cornice perfetta per raccontare, ancora una volta, le sfaccettature dell’animo umano, fragilità comprese. Tante piccole storie che si sfiorano ogni giorno, ma forse non si fondono mai veramente.
E come nelle migliori storie, accade che il personaggio più burlone, è forse quello che ci stupisce di più, quello che ha ancora l’innocenza e l’incoscienza necessaria per sognare in grande, sognare un futuro migliore; ma allo stesso tempo è incatenato al presente e, sotto strati di apparente scemenza, soffre più di tutti. Un altra cosa che pone “La cucina” tra le fila delle belle storie, quelle scritte bene ed interpretate con il cuore, è un finale speciale, uno di quelli che non ti aspetti, che ti scoppiano davanti agli occhi e ti fanno sorridere, pensano che questi qui, quelli che il teatro l’hanno scelto e lo macinano ogni giorno, copione dopo copione, l’hanno fatta grossa: sono artisti, geni.

E Vorrei dirvi di più, raccontarvi per filo e per segno ma… cari miei, stavolta non avete proprio scuse: “La cucina” è in scena fino al 27 Novembre. Cosa aspettate? Prendete l’amico, l’amante – o il gatto, nel caso – e correte a teatro. Correteci perchè una cosa come questa, come suggerisce il claim di questa novella stagione teatrale, “succede solo a teatro”.

Il regista Marco Bernardi, parlando dello spettacolo, scrive queste paroline: “Uomini e donne, vecchi e giovani, uno spaccato di umanità vario e senza peli sulla lingua. Insomma, una situazione in cui può succedere di tutto: cosa si può immaginare di più teatrale? (…) La cucina come ombelico del mondo, come campionario di umanità: una cucina shakespeariana!”
Magari lo spettacolo non vi piacerà poi tanto. Chissà. Oppure, nel migliore dei casi, vi succederà quello che è successo a me: la scenografia, i dialoghi svelti e diretti, il numeroso cast, e la storia in sé mi hanno entusiasmato così tanto, da farmi venire l’acquolina in bocca e lo voglia di cucinare; proprio a me, quella a cui gli amici speciali regalano i libri di cucina e la prima cosa che fa è apprezzarne largamente la grafica e la fotografia.

Forse la vita stessa è la miglior opera teatrale mai scritta, ma Wesker e Bernardi, la sanno lunga; e le vite ritratte nello spettacolo, somigliano vagamente alle nostre felici, incazzate, frenetiche, gioiose, precarie maledette, pasticciate vite. E allora, nell’epoca di Master Chef, vale davvero la pena prendersi il tempo per andare a teatro, a vedere uno spettacolo che smitizza il mondo della ristorazione, riportandolo all’essenza del quotidiano e servendocelo in tavola così com’è: crudo, condito con una vinaigrette di emozioni, fragilità umane e un finale da urlo.

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