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September 20, 2016

BASSOX3: Reinhold Messner

Mauro Sperandio
Tre illustri personaggi legati al Trentino-Alto Adige, raccontano il loro punto di vista sul concetto di "basso". Reinhold Messner nasce uomo di montagna e diventa il Re degli 8000, il più grande della storia dell'alpinismo. Parlare con lui del "basso" è sicuramente una prospettiva curiosa...

Reinhold Messner mi riceve nella terrazza di Castel Firmiano. Quando mi viene incontro, molti visitatori del Messner Mountain Museum lo accolgono con entusiasmo, desiderosi di conoscerlo. Lui, secco, li invita ad attendere la fine dell’intervista. Questo episodio e il parlare con lui mi svelano un aspetto che senza averlo mai incontrato dal vivo non potevo cogliere: l’autorità (non solo autorevolezza) della sua persona. Come il capitano Shackleton dell’Endurance, Messner emana senso del dovere e responsabilità, nei confronti di se stesso, di chi lavora con lui e rispetto alle attività, contadine e culturali, che gestisce. Le sue parole sono scelte con precisione e il suo discorso non ha fronzoli, l’occhio si illumina di luce sbarazzina solo quando mi racconta che è vissuto a Padova due anni, in teoria per studiare…

Lei è considerato il più grande alpinista di tutti i tempi. Immagino che di fronte alla potenza della montagna, un requisito fondamentale per il successo – e la sopravvivenza- sia quello dell’umiltà. Come si concretizza nell’alpinismo questa disposizione dell’animo?

La montagna non ha volontà, essa esiste e, a differenza degli uomini, non ha malignità. Se rispetto i pericoli insiti nell’ambiente montano e la sua grandezza ho delle possibilità di sopravvivere. Le tragedie sono causate dagli errori dell’uomo, non dalla montagna.
L’umiltà deve crescere con l’altitudine: più in alto vado, più difficile è la situazione e più grande deve essere il mio rispetto nei confronti della montagna.

Ha affermato di aver fallito circa un terzo delle vie che ha tentato, credo che questo abbia a che fare con la capacità di capire quando è il momento di scendere a valle. Che rapporto ha con l’errore e il fallimento?

Il mio metodo per imparare consiste nel tentare, sbagliare o fallire e nel ritentare. Si impara più dal fallimento che dal successo, quest’ultimo non mi rende più forte, anche perchè ha sempre più padri. Se hai un po’ di autocritica l’errore ti mostra i tuoi punti deboli e ti permette di ritentare, se vuoi.
Il mio successo si basa sul fatto che più di altri ho avuto la forza di rimettermi in piedi e ritentare, anche molte volte.

Quando è diventato padre, con delle responsabilità che andavano oltre la sua persona, come è cambiato il suo scrupolo?

Ma, sa, anche se i figli si possono  tutelare con un’assicurazione… la loro nascita ha coinciso con la riduzione delle difficoltà che affrontavo. Il senso di responsabilità mi ha comunque portato ad una maggiore attenzione.

Lo stare in basso, nella vita, può essere una condizione non solo fisica, ma anche morale. Per 30 anni – dal 1970 al 2000 e 2005 – è stato ingiustamente accusato di aver abbandonato, per  sua gloria personale,  suo fratello Gunther sul Nanga Parbat. Le chiedo come, davanti all’abominio delle accuse ingiuste, abbia trovato la forza per andare avanti con la sua attività e mantenere anche il contatto con il pubblico.

Nel momento della tragedia – che non si è consumata in attimi, ma in giorni – era talmente difficile uscirne che non c’era il tempo di disperarsi, come si potrebbe immaginare. Ogni secondo era dedicato al tentativo di portare mio fratello a valle. Quando è avvenuta la tragedia sono stato preso dalla necessità di concentrarmi e raccogliere le ultime energie per ritornare. I mesi successivi sono stati  caratterizzati dal lutto e dal dolore condiviso con i miei genitori e fratelli. Sia dalla famiglia sia dai miei amici ho ricevuto grandi pressioni affinchè interrompessi l’attività alpinistica e riprendessi gli studi univeristari. Tuttavia, dopo pochi mesi, mi sono reso conto che il rinunciare alla mia passione per la montagna non avrebbe riportato mio fratello in vita e che mi era data la possibilità di cominciare una seconda vita, non più sulle Dolomiti ma sulle grandi montagne. In questo ho trovato una seconda forma per esprimermi, seguite poi da altre, in vari contesti e con varie attività, come quella dei musei della montagna.
Questa tragedia mi ha insegnato che nella nostra vita, anche se può essere doloroso, è a volte necessario dare un taglio al corso delle cose e ricominciare.
Quanto alle accuse che mi venivano mosse, il tentativo di giustificarsi da parte di qualcuno della spedizione per quanto accaduto, con il tempo, è diventato un affare che aveva come oggetto il vendere queste menzogne.

La gente di montagna, in tutto il mondo, è riuscita a vivere in regioni spesso ostili, creando civiltà e sviluppando solidarietà. Cosa può insegnare la cultura della montagna agli abitanti di città sempre meno ospitali e sempre più frantumate?

Per prima cosa è necessario precisare che la cultura della montagna è oggi totalmente diversa da quella della città. Da diecimila anni l’uomo cerca l’ambiente della città nella convinzione che garantisca una maggiore sicurezza rispetto a quello delle montagne, dove le persone vivono nei masi ad alta quota, ognuno per conto proprio. Tuttavia, in questo ambiente le singole famiglie collaborano in maniera più stretta e fattiva dei cittadini. Chi abita la città è convinto di vivere al sicuro, senza esserlo veramente; il passare degli anni e le sciagure che accadono ci rendono questo assolutamente chiaro. Personalmente mi sento più al sicuro salendo l’Everest che a New York.
Io stesso, che sono nato in una valle laterale della Val di Funes, vengo dalla cultura della montagna e porto avanti personalmente l’attività del maso. Sono perfettamente a conoscenza che è difficile sopravvivere con cinque mucche a duemila metri di altitudine, ma credo necessario che questo know-how non vada perso, perchè in un mondo futuro potrebbe ancora servirci. Stiamo parlando di un sapere maturato in migliaia di anni, che anche se al momento sembra perdente rispetto a quella della città perchè meno redditizio, non deve essere perso. Parlando ancora di basso, mi batto anche per un turismo che non oltrepassi una certa quota per dare guadagno alla popolazione di montagna, perchè ritengo che dove c’è la wilderness c’è libertà di andare ma non la necessità.

Foto: Andreas Panzenberger

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