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June 19, 2016

Dal PIFF a Provincetown, due film belli e una stroncatura (che ogni tanto ci vuole)

Cristina Vezzaro

La sorpresa della giornata è il documentario “Uncle Howard”, girato da Aaron Brookner, che recupera un documentario su William Burroughs girato dallo zio Howard Brookner stroncato nel 1989 dall’AIDS. Mettendosi alla ricerca del film, rimasto sepolto per 30 anni, Aaron incontra coloro che al tempo erano alla NYU a studiare cinema insieme allo zio, tra cui Jim Jarmusch (che è executive producer del film), e tra i loro racconti e il materiale girato da Howard ricostruisce uno spaccato affascinante e importante della NY artistica degli anni ’70 e ’80. È così che a performance artistiche in teatro di poeti (Ginsberg, Burroughs), musicisti (Zappa) e artisti vari si intrecciano le storie personali di quest’uomo molto affascinante, andato a scuola con Jarmusch, Spike Lee etc., che tutti conosceremmo molto bene se l’epidemia dell’AIDS non lo avesse stroncato appena trentenne. Il tocco personale, del nipote molto vicino allo zio artista, che ne ricostruisce la vita e l’opera per ritrovare se stesso, è anche molto riuscito. 

Bello anche il serbo “A Good Wife”, dell’attrice e regista Mirjana Karanovic, una donna sposata con tre figli che si ritrova a dover fare i conti all’improvviso con due mali che non avrebbe voluto vedere. Un primo al seno, il secondo in casa. L’ombra della guerra in cui il marito ha combattuto continua a calare sulla vita domestica, già turbata dalla figlia maggiore,  dura oppositrice di quel genocidio perpetrato in nome di un nazionalismo pieno di odio. La scoperta del tumore e di una videocassetta che non aveva mai voluto vedere prima fanno esplodere la situazione con un finale inatteso.

Devo invece parlare male di Ira Sachs, il cui terzo film “Little Men” è davvero irritante. Sulla carta le premesse erano ottime: la gentrification a Brooklyn causa conflitti umani che l’amicizia tra due bambini sembra poter superare. Su schermo, il film è un disastro. A partire dalla narrazione, che definirei falsa: lacrime e rabbia e sentimenti che lo spettatore mai riesce a provare con gli attori (peraltro davvero mediocri). Il ritmo delle scene, minuti e minuti di scene che ti hanno già raccontato tutto dopo qualche secondo e diventano presto fastidiose. E poi il punto di vista, quello dei “poveri” ricchi che avendo ereditato a Brooklyn si spostano da Manhattan e devono, pensa te, fare i conti con questi inquilini immigrati che vogliono ancora pagare un affitto normale senza vederselo triplicato nel giro di niente. A un certo punto diventa addirittura offensivo, quando quella seccatura s’insinua nella loro vita di attori-psicanalisti-figli artisti perfetta rischiando di rovinargli il weekend. 

Fa davvero rabbia, questo film di Ira Sachs, perché gli spunti c’erano tutti, ma una buona storia non sempre diventa un buon libro o un buon film e può anzi risultare persino offensiva a sbagliare il punto di vista e il taglio. Perché la differenza tra raccontare storie e fare arte è la capacità di saperle mostrare, quelle storie, secondo il vecchio adagio “Show, don’t tell”. 

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