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April 20, 2016

Quanto è totale il lavorototale? Incontro con Maurizio Busacca a Impact Hub trentino

Anna Quinz
Domani, giovedì 21 aprile alle 18.30 Maurizio Busacca sarà ospite di Impact Hub Trentino, dove presenterà il suo ultimo libro dal titolo emblematico: "Lavoro totale. Il precariato cognitivo nell’era dell’auto-imprenditorialità e della Social Innovation". Un tema caldo, attualissimo, cruciale, che ci coinvolge tutti, noi che siamo - inevitabilmente - lavoratori totali.

Lavorare, parlare di lavoro, lavorare parlando di lavoro, vivere lavorando, lavorare per vivere… Quanti modi ci sono per interpretare la propria esistenza professionale oggi? Tanti, tantissimi. Perché il lavoro – sopratutto in determinati ambiti, quelli in particolare in cui ci muoviamo proprio noi, proprio ora – è esperienza totalizzante, che assorbe ogni cellula, ogni minuto, ogni aspetto del vivere. Una scelta, spesso, un bisogno ancora più di frequente. ma le condizioni del lavoro, quali sono? Adatte a noi e al nostro tempo? Tanto si parla di lavoro cognitivo, di lavoro materiale e immateriale, di sharing economy, di innovazione e di social innovation… tutto ha a che fare con la sfera professionale, tutto centra, tutto torna. Ma è forse ancora necessario capire, indagare, osservare e proporre prospettive che calzino con uno status quo che ci fa lavoratori molto diversi da quelli che ci hanno preceduto.

Maurizio Busacca ha fatto proprio questo. Ha osservato, riflettuto e raccontato il lavoro oggi, nel suo libro “Lavoro totale. Il precariato cognitivo nell’era dell’auto-imprenditorialità e della Social Innovation”. 
Maurizio è Cultore della Materia in Critical Management Studies presso il dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari a Venezia e PhD Student in Pianificazione territoriale e Politiche Pubbliche del Territorio alla Scuola di Dottorato dell’Università IUAV di Venezia, dove ha iniziato un lavoro di ricerca su ‘Innovazione Sociale e Politiche per il Lavoro’, soprattutto nell’ambito della programmazione europea. È membro del Laboratorio di Management delle Arti e della Cultura – M.A.C.Lab, nell’ambito del quale si occupa di indagare i terreni di intersezione tra Innovazione Sociale e Innovazione Culturale, settori nei quali è attualmente impegnato nell’avvio di alcuni progetti imprenditoriali. 

Il libro di Maurizio, edito da doppiozero è acquistabile qui, intanto però ascoltiamolo domani a Impact Hub e prima ancora, leggiamolo qui nella generosa intervista che mi ha concesso. 

Maurizio, partiamo dalle basi. ”Lavoro totale”: una definizione

Con il termine Lavorototale faccio riferimento a quel fenomeno che ha prodotto la rottura di ogni argine tra i tempi di vita e di lavoro e che ha messo al lavoro le nostre intere vite. Non si tratta di un fenomeno nuovo, storicamente ha caratterizzato una pluralità di classi in epoche diverse. Riferendosi al solo mondo occidentale gli schiavi non avevano certo tempo privato e neanche, più recentemente, gli uomini e le donne che hanno fatto impresa. Nel corso del ‘900, però, si era costruito un avanzato e articolato insieme di dispositivi di welfare che almeno sul piano temporale avevano progressivamente separato il tempo di vita dal tempo di lavoro (sul piano funzionale invece i due tempi non sono mai stati separati, anzi: i dispositivi di welfare erano progettati ed erogati per classi specifiche di lavoratori e lavoratrici). Oggi, da un lato, mettendo in discussione quel sistema di welfare è stato fatto saltare l’argine, dall’altro il Lavorototale è diventato la cifra del contemporaneo e non è più solo una caratteristica di alcune classi o gruppi sociali. Le tecnologie hanno giocato certamente un ruolo – basti pensare alle implicazioni che sta avendo l’uso per lavoro di whatsapp (e delle sue spunte blu) – ma si tratta di un fenomeno più complesso e che travalica i confini della tecnologia e si spinge fino alla condizione stessa dell’umano, come dimostra l’ancoraggio di molti diritti sociali alla condizione lavorativa malgrado questa sia profondamente mutata in anni recenti.

Limiti, prospettive possibili, punti di forza, evoluzioni, del lavoro oggi, dal tuo punto di vista di osservatore, ricercatore, lavoratore?

Nel libro, seppure sottotraccia, faccio continuamente riferimento al lavoro di Franco Basaglia e Franca Ongaro. Non si tratta solo di un omaggio a due tra i più grandi innovatori sociali del ‘900. La loro grandezza, per me, si è mostrata nella capacità di rapportarsi criticamente con il ruolo istituzionale e sociale sia del malato che dell’operatore psichiatrico. Non hanno mai messo in discussione la necessità di una psichiatria ma ne hanno criticato ferocemente e coraggiosamente le forme di istituzionalizzazione che aveva storicamente assunto. Credo che oggi ci sarebbe un enorme bisogno di affrontare con quello spirito le condizioni del lavoro. Il lavoro è al tempo stesso giogo e opportunità, è strumento di controllo che arriva a controllare l’intera vita degli individui ma è contemporaneamente un’occasione e uno strumento di emancipazione, così come la psichiatria era strumento di cura e di oppressione. Dal mio punto di vista non si tratta di trincerarsi dietro l’una o l’altra definizione, quanto piuttosto di riconoscere che le due (inter)agiscono su una molteplicità di livelli: sociale, culturale, istituzionale, personale e perfino affettivo. Riconoscere e studiare il lato oscuro del lavoro, dal mio punto di vista, ci restituisce la possibilità di comprendere dove operare per coglierne le opportunità.

Come leggi dal tuo punto di vista il lavoro intellettuale oggi? Materiale vs immateriale, il grande dibattito continua?

È un dibattito che mi affascina poco e secondo me è anche mal posto, soprattutto quando si enfatizza la progressiva dematerializzazione del lavoro. Andatelo a dire ai tanto decantati neo-artigiani del Made in Italy che sono tali perché hanno saputo cogliere e valorizzare la dimensione immateriale del loro lavoro. Le loro mani e le loro stesse vite vi risponderebbero esattamente l’opposto (e le loro parole lo farebbero in modo meno educato…). La stragrande maggioranza dei lavori restano materiali, è solo la narrazione da rivista che si concentra nel dare enfasi alla progressiva dematerializzazione del lavoro. Penso che la questione sia un’altra: sono le componenti immateriali della produzione che rivestono un ruolo sempre più determinante nel capitalismo contemporaneo. Da questo punto di vista, forse, il compito del lavoro intellettuale non è di sostituirsi a quello materiale – anche perché il lavoro intellettuale è assolutamente materiale! Credo piuttosto che il compito del lavoro cosiddetto immateriale sia di dialogare con il lavoro materiale, di mettersi in relazione e costruire assieme traiettorie inedite. A Ca’ Foscari, grazie a Fabrizio Panozzo, è quello che da alcuni anni stiamo cercando di fare: scendere dal piedistallo e smetterla di pontificare per dialogare nel modo e nel senso più veri della parola con le imprese e i loro addetti, a costo di rinunciare ad alcune forme tipiche della ricerca, prima tra tutte le pubblicazioni, e costruire continuamente momenti di conoscenza, confronto e discussione, anche aspra ma sempre puntuale e ancorata alle questi materiali dell’organizzazione e della produzione.

Il lavoro oggi, almeno in certi ambiti, risucchia e assorbe e si infila in ogni anfratto della vita. Questo è per te bene o male? Aumenta la produttività ma penalizza la sfera privata? Diventa patologia? È curabile?

Non lo so se è bene o male, stai dialogando con una persona (cioè me) che ha riposto nel lavoro gran parte delle proprie energie fisiche e mentali e delle proprie speranze di futuro. Se anche fosse una patologia sarei l’ultimo al mondo a poterla diagnosticare. Quello di cui sono certo però è un’altra cosa: io questa strada me la sono scelta e costruita mattone su mattone; invece, temo possa diventare tragedia quando non è scelta ma condizione inevitabile dell’esistere. È proprio a questo che faccio riferimento nel libro parlando di improduttivitàmalata come doppio del Lavorototale e a questa condizione possiamo collegare una molteplicità di patologie che sono certamente curabili, anche se forse stiamo cercando la cura nel posto sbagliato: la cerchiamo soprattutto nell’organizzazione del lavoro – il sempre più famoso tema del welfare aziendale si inscrive proprio in questa traiettoria – ma forse andrebbe cercata nella società e quindi nello spazio politico. Non penso nemmeno che sia una questione di produttività; ormai anche i guru più glamour del Lavorototale, ad esempio quelli che vendono startup e innovazione un tanto al chilo, hanno capito che la produttività è inversamente proporzionale ai tempi di lavoro quando questi sono esageratamente prolungati. Se non fosse così gli iper-capitalisti della Silicon Valley sarebbero davvero i rivoluzionari che dicono di essere dato che si sono recentemente dichiarati a favore del reddito di cittadinanza quale strumento per liberare gli essere umani dal lavoro imposto a favore del lavoro scelto. Credo invece che la questione sia un’altra e dovremmo osare di chiederci quali effetti produce questa situazione? E soprattutto a chi giova?

Tu che lavoratore pensi di essere? Cosa – per te stesso – vorresti modificare del tuo affrontare la quotidianità lavorativa?

Un lavoratore totale, ovviamente… Battute a parte, credo di essere quello che c’è di più simile a un artigiano e come tale la mia massima aspirazione è vivere, bene, dei miei prodotti. Non sono uno di quelli che dice di amare talmente tanto il suo lavoro che lo farebbe anche gratis. Forse se fossi nato ricco o anche benestante lo direi, ma così non è stato. Per me il lavoro è prima di tutto un’occasione di riscatto sociale, è uno strumento per guadagnarmi la possibilità di vivere in una condizione migliore di quella che la società mi aveva attribuito per nascita. Se poi aggiungiamo che il lavoro che faccio mi piace pure, il gioco è fatto. Mi capita di insegnare a qualche studente o neo-laureato e questo è un tema su cui ritorno spesso e con molta enfasi. Soprattutto in relazione ai cosiddetti lavori immateriali, retoriche potenti hanno promosso un discorso di segno opposto: il genio, la creatività, l’idea originale e così via sono gli ingredienti principali per farcela nel lavoro e nella vita. Con l’effetto di produrre grandi frustrazioni in moltissime persone che sono convinte, in alcuni casi anche giustamente, di avere tutte queste qualità. Il problema è che senza la fatica e la tenacia queste ti portano poco lontano. Il film The Social Network mette l’accento su tanti aspetti delle vicende che hanno portato alla nascita di Facebook ma ce n’è uno che viene sempre lasciato sullo sfondo: Eisenberg/Zuckerberg per buona parte del film è al computer a programmare e passa le parti restanti a tessere relazioni con partner e investitori (cioè fa quello che dovrebbero fare gli imprenditori e le imprenditrici). Il resto è fortuna (o caso) più che genio.

Giovani, innovazione, futuro, start Up, incubazione, sharing economy… Parole di moda ormai svuotate o c’è ancora uno spiraglio?

La questione giovani dovrebbe essere in cima alla lista di cose di cui occuparci e non tanto perché è un’emergenza quanto perché nei confronti dei giovani oltre al danno è stata perpetrata una beffa. Se il rapporto tra lavoro e giovani ha raggiunto le criticità che noi oggi conosciamo è perché sono state promosse delle politiche di sviluppo che hanno scelto di dare maggiore peso ad altri gruppi sociali. Fin qui tutto legittimo, per quanto discutibile. È invece discutibile che dopo aver creato una tale condizione oggi ai giovani si dica anche ma come? Vorresti un lavoro? dovresti creartelo da te, invece di chiedere. Se continuiamo a presentare il lato patinato di questo discorso, quello delle start up, degli incubatori e della on-demand economy per capirci, ci assumiamo la responsabilità di spingere verso un dirupo molto alto un numero sempre più ampio di giovani, che nella maggior parte dei casi non hanno né il fisico né la testa di affrontare forme di lavoro altamente imprenditoriale, come d’altronde è normale che sia e come è sempre stato. In queste condizioni si salveranno solo quelli nati bene o sposati bene, per gli altri l’esito di un salto nel baratro avrebbe un esito scontato. Senza mettere in discussione queste retoriche e le politiche che ne sono conseguite non riusciremo mai ad affrontare la questione vera: che ruolo affidiamo alla gioventù nella nostra società? Il problema è che porci questa domanda farebbe esplodere una lunga serie di contraddizioni che forse non sappiamo o non vogliamo affrontare. Non lo so se è scientificamente provato (e anche se non lo fosse a me piace crederci) ma ho sempre associato alla condizione giovanile un alto potenziale innovativo che come tale è potenzialmente trasgressivo. Ricercare le condizioni di agibilità sociale, culturale, economica e in ultima istanza politica per i giovani, da questo punto di vista, vorrebbe dire che vivremmo in una società capace di accettare veramente l’innovazione, invece la mia impressione è che ci piaccia solo quella addomesticata.

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