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June 30, 2015

“Saul Fia” di László Nemes: more than HomeGrown Review

Cristina Vezzaro

È a Budapest che vedo, in lingua originale, “Saul Fia”, il film ungherese Grand Prix de la Critique à Cannes. Ho appena conosciuto il suo protagonista, a una festa, e mi sembra un dovere correre in sala, anche senza sottotitoli. Peraltro, il film si alterna tra tedesco, ungherese, yiddish, polacco e russo, e il fatto di non comprendere appieno tutto quello che viene detto mi sembra ricreare al meglio il clima dei campi di concentramento, dove la conoscenza della lingua poteva (in pochi, rarissimi casi) salvarti la vita.

Apre benissimo, Saul Fia, chiarendo da subito la prospettiva del film intero, dal punto di vista di un membro dei Sonderkommando, prigionieri destinati anch’essi a morte sicura ma sospesi per poco in un purgatorio fatto di un inferno ancora più nero: quello di altri esseri umani da accompagnare alla morte. La consapevolezza, quindi, di una morte certa, una consapevolezza più grande ancora di quella di chi magari ancora spera che davvero la camera a gas sia una doccia comune.

È attraverso lo sguardo di Saul che ci addentriamo negli orrori dell’Olocausto: una routine ancora ordinata, all’inizio, mascherata dall’idea di una doccia, di vestiti che saranno ritrovati, chissà. A scuotere quell’istinto di sopravvivenza che conduce Saul e gli altri membri del Sonderkommando a compiere le azioni indegne che i tedeschi affidano loro – accompagnare i detenuti nelle camere a gas, percorrerne i vestiti per ritrovarvi beni preziosi, raccogliere i corpi, pulire le camere, portarli all’inceneritore e quindi spargerne le ceneri nel fiume – è il corpo di un ragazzino, uno dei pochissimi a sopravvivere alla camera a gas prima di essere ucciso direttamente dalla mano del medico tedesco. A eseguire l’autopsia su di lui per capire cosa ne possa fare un essere tanto resistente dovrebbe essere un medico ungherese che lavora con i tedeschi. Ma Saul ha individuato in quel ragazzino un figlio e ha deciso che deve essergli garantita degna sepoltura. Quella diventa allora la sua tanto assurda quanto impossibile missione all’interno del campo.

Crudele come solo la realtà sa essere, il film ha il pregio di mostrare attraverso lo sguardo dei prigionieri gli orrori del campo, che poco a poco l’occhio riesce ad addomesticare ritrovando nell’assurda missione del protagonista la stessa necessità di continuare a trovare un senso alla vita che anche i prigionieri devono avere provato. Ha il pregio di mostrare come l’ordine iniziale, le parole assurde ma quasi rassicuranti dei tedeschi che mandavano i prigionieri a morte, siano state nel tempo sostituite dalla violenza più apertamente spietata e dalla follia più pura. Ottimamente diretto e recitato, è un film molto efficace e necessario. Perché rimarrà sempre necessario ricordare cosa è successo.

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