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June 4, 2015

Centrale Fies, l’attrazione. Parte II

Luca Ruali
Seconda parte dell'intervento di Luca Ruali per franzmagazine, contributi di Actant Visuelle, Beniamino Servino. Sul perché Centrale Fies parla di sé usando il nome di un edificio. Perché la Centrale è tanto un centro di produzione artistica quanto un fabbricato abbandonato. Perché tra la sua crew si registrano istinti predatori.

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Lasciarsi andare da una casa all’altra (seconda parte?)

Per completare la sua capacità di attrazione Centrale Fies ha avuto bisogno di essere stata abbandonata. Anche chi reagisce alla proposta attuale dell’edificio deve ricordare il senso completo dell’idea di abbandono che non si distacca dal sentimento di lasciarsi andare.

Uno stato di abbandono reciproco tra fabbricati e persone, che genera una sostanza narrativa specifica, fuori da ogni genere.

La centrale come altri ponti, locande, pozzi, fiere, case cantoniere, radure, campi, fienili, appartiene a quelle strutture che organizzano il desiderio quotidiano di alcuni personaggi sensibili, i protagonisti apparenti delle storie italiane. L’esempio inevitabile è la storia di un burattino di Collodi, con i suoi episodi separati e debolmente connessi, ambigui ed aperti, ciascuno meraviglioso.

Con Pinocchio pochi altri testi picareschi continuano la tradizione delle leggende auree e della Hypnerotomachia Poliphili, percorsi in una ipnosi amorosa, da una struttura enigmatica nel paesaggio ad un’altra. Mentre il lavoro dei direttori della fotografia italiani fino agli anni ’60 – Rotunno, Martelli, Nannuzzi, Parolin, Delli Colli – ha descritto con chiarezza come un tipo particolare di vicenda umana proceda secondo alcuni elementi archetipici del paesaggio.Lina Wertmuller, I basilischi, 1963, fotografia di Gianni Di Venanzo

La tecnica più didascalica a questo riguardo è quella di Gianni Di Venanzo, che organizza le scene attorno a segni che risaltano sul territorio. Le sue panoramiche guidano i personaggi da un segno ad un altro. E così viene riconosciuta la qualità principale di questo tipo di narrativa ambientale, cioè la tensione da un elemento verso l’altro.

Uomini e donne-casa, uomini-albero, donne-lupo

Fuori dalle città, lasciandosi andare dall’uno all’altro di questi elementi del paesaggio ci si abbandona alla azione di queste case ai margini. L’esito è quello di percorsi personali rotti. Vie crucis spezzate e fuori genere.

Contribuendo al padiglione italiano alla 13-esima Biennale di Architettura di Venezia ho considerato il ruolo sociale di autori e progettisti ai margini. E mi sono sbagliato.

Ho guardato agli autori e non alle loro case, alle loro città e territori. Che poi quelli che avevo scelto erano autori già predisposti ad una integrazione col paesaggio attorno. Arminio che sente non di avere i piedi per terra, ma piuttosto di essere conficcato fino al ginocchio nella pietra dei paesi. Servino che costruisce la ricerca di una vita sul ridisegno quotidiano di un solo capannone visto nella piana di Caiazzo. Avevo già raccolto i figli di questa attrazione tra edifici e persone: uomini-casa [3], uomini-paese, uomini-paesaggio. E già mi riferivo al loro lavoro in termini di spazio. 

Mi interessava il modo in cui queste ricerche ai margini lavorano sull’immaginazione delle persone, definendo uno spazio generoso di sperimentazione sociale, che ospita i sogni ad occhi aperti delle persone che lo raggiungono.

Rispetto al conformismo della produzione creativa, la distanza da cui arrivano questi lavori definisce una riserva al riparo dall’uniformità dei modelli di comportamento. Uno spazio che garantisce la possibilità – era il titolo del mio contributo alla mostra – di fare altre cose.

Un lavoro si apre ai sentimenti degli altri per i temi condivisi. Ma qui il terreno comune era la terra vera e propria, il Paese. Leggere quelle produzioni attraverso gli autori è stato uno sbaglio, avrei dovuto concentrarmi sull’archivio dei modelli, il paesaggio stesso, le case stesse. Che è quello che ho fatto ora.

Ultima imprecisa considerazione. Ho accennato alle persone che si prendono cura di Centrale Fies, al loro panico. L’abbandono di un edificio invita la natura a partecipare al processo di corrosione e rovina delle mura. Questo passaggio stabilisce un nuovo accordo tra le case e le piante. Una armonia che viene mantenuta anche dopo il recupero, accordando un nuovo potere ad alberi e animali. E definendo un nuovo carattere per chi torna ad abitare quelle strutture. Persone che mordono, hanno una confidenza nuova col bosco e le rocce. Provano nuovi istinti da predatore, secondo la loro natura. 

[3] “Beniamino ciao, tu ti senti un uomo-casa? Nel tuo caso un uomo-pennata?”
“No. Io semplicemente detesto i turisti. I viaggiatori ossessivi-compulsivi che di ritorno da un viaggio dichiarano: ci devi andare! Sì. Io sono un ossessivo-compulsivo della permanenza. O, se è stato proprio necessario uno spostamento, del ritorno. Senza dichiarazioni.”

Nelle immagini:
Luca Ruali, Radure e case nere, 2015
Lina Wertmuller, I basilischi, 1963, fotografia di Gianni Di Venanzo

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