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October 23, 2014

Sinestetico Strauben #12. Strappati la camicia, con dignità

Mauro Sperandio

Non mentite, non vi sono mancato.

Come avrete forse già inteso nei mie precedenti scritti, se trovo qualche argomento interessante lo aggiungo al polpettone che vi propino, a volte come farebbe una scrupolosa massaia, altre invece come il cuoco lui stesso bisunto di una disamorata mensa aziendale.

E’ da parecchio tempo che ho il desiderio di parlarvi di un brano musicale di un certo cantante spagnolo, più precisamente il mio desiderio è di parlarvi di una cosa che succede durante questo brano e che trovo si presti a descrivere -come analogia- il guizzo inaspettato di chi se ne sta composto con il corpo oppure con le parole.

Attenzione: Nulla di strabiliante, non aspettate che vi stupisca con effetti speciali, penso solo a quelle espressioni inaspettate che provocano un sano sorriso. 

Il fatto che qualcuno si liberi -anche solo per pochi istanti- dai vincoli formali del ruolo in cui si trova o della situazione in cui sta vivendo, credo possa significare principalmente due cose:

- mi fido, sono a mio agio 

- voglio comprare la tua complicità, attenzione, amicizia e faccio il simpatico

Ricordo con grande pena gli adulti che, ai tempi del liceo, anche in situazioni formali, si lasciavano scappare (mah!) un chiaro “Cazzo!” per rendersi simpatici e “giovani tra i giovani”.

Non voglio però scrivere di questo tipo di furbe e false libertà, ma di una simpatica liberazione dai vincoli.

Torniamo al brano: Soy gitano.

Inciso dal più grande cantante flamenco di sempre: Camaron de la Isla.

In che anno? Nel 1989.

Suonato da celebrità del flameco (El Tomate, Charles Benavent, per dirne due), il brano è stato registrato agli Abby Road Studios, quelli dei Beatles e dei Pink Floyd, note boyband del secolo scorso.

Camaron, con mesta fierezza gitana, grida fin dall’esordio del brano il suo dolore per essere stato lasciato. Anzi, peggio, la donna che tanto rimpiange è prossima alle nozze, con un altro.

Tanto gli ribolle il sangue nelle vene, che minaccia di recarsi al matrimonio a strapparsi la camicia, gesto di gaudio, fatto in segno di spregio davanti agli sposi.

La musica, un tango flamenco, è piuttosto allegra e assieme alla voce disperata -ma che a volte sembra ammiccare, quasi non proprio straziata dal dolore- dipinge bene l’idea di un matrimonio andaluso con la variante dell’invasione del focoso abbandonato.

Ma veniamo al punto.

La parte riservata agli archi, crepi l’avarizia, è affidata alla Royal Philharmonic Orchestra, il ministro della musica della Regina, una corrazzata musicale già diretta da esperti capitani di chiara fama.

Sentirete come fin dall’inizio il tema portante sia affidato agli archi che introducono el cante con fierezza gitana, si fanno da parte e poi lo accompagnano discretamente al ritornello dove avviene il simpatico guizzo…

gli orchestrali si snodano i papillon, roteano le giacche, salgono sulle sedie e se parton la camiza gettandosi nella festa di un movimentato matrimonio.

Niente pirotecnia, un piccolo pacifico sisma, cose di umani felici.

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