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June 7, 2013

La verità della cose #02. Amira Chiaro. Il design del dolore

Gabriele Crosato
Da 20 anni seguo una linea sottile e impercettibile. Porta a persone uniche nel loro genere. Sono esseri in grado di farci vivere. Di darci sedie in cui sederci, pentole su cui cucinare. Ho la fortuna di dare i nomi ed i volti a coloro che a loro volta danno forma al nostro quieto vivere. Benvenuti in un mondo fatto di nebbie e parole dimenticate, sarà un piacere portarvi con me.


“È il dolore che muove le masse. I brutti ricordi e gli incubi che ci fanno svegliare. Il benessere annebbia, rallenta. Fa chiudere gli occhi e non svegliare”.  Su ogni oggetto da lei disegnato la stessa scritta e storcendo la testa cerco di capire il passato per interpretare il futuro. Mi chiedo chi mi troverò davanti. Una specie di fachiro annebbiato da un’infanzia con una madre che non andava a parlare con i professori ed un padre che rompeva i giochi.

Una volta mi era capitato un libro davanti. Parlava della “terapia del dolore” un meccanismo secondo cui solo attraverso la condivisione di eventi spiacevoli fosse veramente possibile capire il prossimo. Allinearsi ad un’emozione perché già provata. Un movimento lontano dalle teorie, dallo studio. Qualcosa di molto secco e violento.

Sono nel mio studio all’ultimo piano di un vecchio palazzo, la porta si apre ed entra un fantasma. Una madonna risucchiata di vita. Ho davanti l’anima di Amira Chiaro. Peserà non più di 40 chili, capelli lunghi e biondi, pelle bianca, quasi trasparente. Mi alzo senza dire nulla per chiudere le finestre, il tempo sta cambiando e non vorrei vederla volare via.

Lei viene dalla Spagna, non si sa molto se non che i suoi mobili unici sono tra i più ricercati dell’ultimo decennio. Prodotti in piccolissima serie e tutti a mano portano con se qualcosa che i collezionisti chiamano “la coscienza del mondo”. Oggetti scomodi, per lo più inutilizzabili che trascinano chi li usa al principio, ad una specie di doloroso brodo primordiale.

2Mi anticipa, sorridendo mi chiede se ho mai perso una persona amata. Le rispondo di si. Mi chiede se ho mai rotto qualche osso, mi chiede se ho un paio di scarpe che stringono. Se mi sanguinano le gengive. Mi fa una serie di domande infinite fino a quando tutto finisce. Sento il piede che avevo rotto farmi male, il cuore lento battere e la mente ritornare agli amici persi per strada.

Capisco che ora posso cominciare l’intervista. Ha stabilito una specie di folle collegamento tra me e lei. Sa che potrò capirla.

Mi racconta della sua infanzia, di come crescendo si era accorta che tutte le persone che le stavano attorno giudicavano, ordinavano, consigliavano senza realmente aver vissuto quella stessa situazione.  Ed allora ha cominciato a provare tutto. Sfiorandosi il viso mi dice che vuole essere completa, andare in fondo per capire l’uomo e la sua natura e l’unica maniera per farlo è il dolore. Scavare in fondo fino a dove l’animo può arrivare.

Io tremo, penso a Gesù Cristo, vorrei sollevarla e salvarla. Un sacrificio. Portarla lontano ma mi accorgo solo ora della mia piccolezza. Di quanto poco effettivamente io posso capire di ciò che mi circonda.

Rivedo le sue sedie in cui per sedersi bisogna mantenere l’equilibrio, rivedo cassetti che in realtà non si aprono, maniglie fatte di spine. Questo siamo, piccoli esseri chiusi nelle proprie case, al sicuro pronti a giudicare, a credere di poter capire. Lei continua a parlarmi ma non ho più bisogno di ascoltare.

Credo che le offrirò un biscotto e poi proverò a capire cosa si prova ad uscire completamente nudi tra la gente.

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