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May 5, 2013

Ti racconto un quartiere. Bruna Maria Dal Lago Veneri: “amo questo quartiere”

Bruna Maria Dallago Veneri

L’allora borgomastro di Bolzano, Julius Perathoner, fu uno degli artefici della Groß-Bozen (“Grande Bolzano”), come venne chiamato allora il nuovo territorio e per unire i due centri con una strada fece abbattere alcuni edifici e la casa Amonn di piazza Municipio che ostruiva il passaggio subì un intervento creando un passaggio dentro al quale venne apposta una targa commemorativa che dice: L’allora borgomastro di Bolzano, Julius Perathoner, fu uno degli artefici della Groß-Bozen (“Grande Bolzano”), come venne chiamato allora il nuovo territorio e per unire i due centri con una strada fece abbattere alcuni edifici e la casa Amonn di piazza Municipio che ostruiva il passaggio subì un intervento creando un passaggio dentro al quale venne apposta una targa commemorativa che dice:“Ström junges Bozen ins alte,/Zieh altes Bozen ins neu’,/Und dich Bozen der Zukunft gestante/Gemeinsinn und Bürgertreu’!Tradotto significa all’incirca: Affluisci nuova Bolzano nella vecchia, / Estenditi vecchia Bolzano nella nuova, / E diventa la Bolzano del futuro / con senso civico e fedeltà dei cittadini (6 gennaio 1911). Fino a quell’epoca Dodiciville fa comune a sé. Il comune di Dodiciville si estendeva da Castel Roncolo al Colle e dall’imbocco della valle dell’Isarco giù fino alla confluenza fra Adige e Isarco circondando per tre lati la città di Bolzano. L’altitudine variava dai 232 metri (l’attuale minimo di Bolzano) della campagna dell’Agruzzo (Grutzen) ai confini con il comune di Laives ai 1.616 metri (l’attuale massimo di Bolzano) del Monte Pozza (Titschen o Kohlerer Berg). Il comune era composto da vari paesi, villaggi, quartieri e masi sparsi. Il toponimo Zwölfmalgreien – attestato già nel 1489 come Zwölf Malgreyden e poi nel 1817 come Malgreyen – deriva dal fatto che il territorio era composto da “dodici” (zwölf) “Malgreien”, che all’epoca aveva il significato di “frazioni. Il centro comunale di Dodiciville, la “Malgrei” chiamata (An der) Zollstange/(Alla) Dogana (l’area attorno all’attuale piazza Dogana) era a pochi passi dal centro di Bolzano e insieme costituivano un unico agglomerato. Questa una parte della storia di quel “quartiere” della città che in italiano si chiama Dodiciville, in tedescoZwölfmalgreien. La storia di un luogo è la dimensione di uno scontro fra la visione del mondo ed una realtá fisica che è costante nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Che cosa è la spaccatura di uno spazio amorfo con la definizione di un punto di orientamento, un dove insediarsi -come recita l’etimologia di città?E ancora, che cosa fa di una città la mia città? Di un quartiere il mio quartiere?Per rispondere a queste domande si dovrà partire da lontano.Mi si dice che un giorno il Signore mi chiederà quante albe abbia visto, quante fioriture di melo contemplato, quanti inverni goduti nel bozzolo caldo della mia casa, quante volte abbia mirato le mobili geometrie delle stelle in cieli lati, sopra le montagne, o in cieli bassi, sopra il mare. Mi si chiederà quante persone abbia conosciuto, amato, perduto, che cosa ne ho fatto della vita che mi è stata donata.Può darsi. Se così è scritto, così sarà.Vuol dire che sarò giudicata sulla scorta di indizi infinitamente più incerti di quelli che fornisce la mia carta d’identità: anno di nascita, professione, sesso, città di provenienza.

Sono nata a Dodiciville, in questo quartiere della città di Bolzano, qui ho vissuto buona parte della mia vita, qui sono morti i miei genitori, mi sono sposata, ho avuto dei figli, dei nipoti, ho lavorato, amato, sofferto e goduto.

Amo questo quartiere.

La fatica che mi costa spiegare il perchè è semplicemente la farica di estrarre da mille sensazioni un paio di pensieri plausibili.

Amo la ruvidezza di certi giorni ventosi, il borbottio della roggia che passa sotto casa mia, il profilo delle montagne, l’opulenza del paesaggio. Odio le piccole beghe cittadine, l’intollerenza, la maleducazione, la mala informazione, la mancanza di cultura di appartenenza.

Guardo con amore i palazzi, in cuore mi racconto antiche storie, rivedo antichi personaggi, antichi mestieri che danno i nomi alle strade.

Ho quasi l’impressione che sia la toponomastica la mia vera madre lingua.

E questa circostanza condiziona i miei tracciati mentali, oltre che i miei passi.

I miei tracciati mentali, cioè le mie memorie.

Uno dei luoghi della memoria è la Stazione che fa parte del nostro quartiere.

Si raccontava nella mia famiglia che alla Stazione di Bolzano vi fosse, in passato, uno stanzone riscaldato, adibito a dormitorio invernale per i barboni.

Nel centro di questo locale c’era una grossa stufa, attorno alla quale correva una corda. Questa corda non solo segnava la giusta distanza a cui tenersi da una stufa che avrebbe letteralmente abbrustolito i barboni infreddoliti, ma permetteva pure a costoro di appoggiarsi con tutto il peso, così da dormire al caldo, anche se in piedi. Al mattino la corda veniva sganciata e, almeno così immaginavo io, i barboni crollavano a terra liberandosi dagli ultimi fumi delle sbornie.

Una corda che divideva la notte dal giorno.

Questa storia l’ho sentita solo a casa mia, luogo di quiete di una famiglia piuttosto fantasiosa, e non so se risponda a realtà. Ma vero o no che sia, la memoria mi sembra illustri bene il particolare rapporto che la cittá aveva con i suoi barboni. Una corda che teneva non troppo a ridosso e non troppo vicino i “diversi”. Una maniera allo stesso tempo brutale e generosa, dura e cordiale, secondo cui il barbone veniva ospitato, riscaldato, e però lasciato in toto al suo destino di barbone.

I barboni: Mia nonna diceva che “fra i loro stracci dieci gatti non sarebbero stati capaci di trovare un topo” e che “vivevano un cielo da ragazzi invecchiato loro malgrado ” Metafore, suoni che mi cavalcano ancora la mente.

I barboni, i mendicanti, gli accattoni, i diversi.

Anche una volta ce n’erano parecchi. Chi non ricorda la “Candida” dalle molte borse e dai molti cappelli, che stazionava in via Bottai, vicino al Cavallino Bianco? Chi ha dimenticato il Franz, l’ubriacone o il Peter brontolone che è morto bruciato da un suo stesso fuoco non tanto tempo fa?

Ora di queste figure non ce ne sono più molte, anche se molti sono quelli che mendicano per la strada, dormono sotto i ponti, trafficano nei giardini e si riscaldano nell’atrio della stazione.

A ricordarla oggi quella buffa corda su cui ronfavano i barboni, con le braccia penzolanti, mi sembra il simbolo della distanza che la città attribuiva loro. Non troppo vicini, nè troppo lontani, comunque parte del paesaggio urbano. Una città accogliente, ma con I suoi bei limiti di suspicione Contadina. Siamo fatti così.

Dodiciville Zwelfmalgreien, patrie mie.

Foto Matteo Vegetti

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