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March 1, 2013

Stefano Cagol + Dolomiti Contemporanee: un viaggio alla “fine del confine”

Karin Mantovani

… il potere dell’immaginazione: pensando alla sua “impresa artistica” e alle sue origini trentine, mi ero immaginata uno Stefano Cagol un po’ alpinista, uno che insomma sfida le vette giocandosela tutta sul piano della verticalità. Scopro, invece, intercettando una sua foto che, proprio come le sue opere, il suo volto si discosta dal prevedibile e ci appare internazionale, con i tratti di cittadino di quel mondo che gli ha dato casa e possibilità creative non solo in Italia e nella vicina Svizzera, ma anche a New York e Bruxelles.

Per capire meglio la sua opera e il messaggio che ha ad essa affidato, lo ho contattato e gli ho posto qualche domanda. Ad abbagliarmi nel vero e proprio senso della parola è stato proprio quel fascio luminoso, lungo 15 km, che il 5 marzo prossimo verrà proiettato al di sopra della Diga del Vajont (all’interno del progetto La fine del confine/The end of the Border, a Casso, per e con Dolomiti Contemporanee), realizzando un ponte di luce simbolico. Nella sua potente e pervadente linearità, la strada tracciata dal nostro artista riuscirà a superare ogni confine spazio-temporale, mettendoci nella condizione di s-confinare con la mente e con lo sguardo.

Stefano, la tua opera ha tratto ispirazione dalla vicenda tragica del Vajont e si è sviluppata successivamente in un percorso itinerante attraverso 7 nazioni europee, oppure hai avuto l’intuizione di una mostra itinerante e solo dopo ti sei messo alla ricerca dei luoghi che avrebbero accolto e ospitato la tua arte?

Già alla fine della primavera dell’anno scorso ho ricevuto l’invito alla Barents Art Triennale. Mi è stato detto che questa seconda edizione, proprio come la prima, non si sarebbe svolta né in un’unica sede, né in un unico momento e che questa volta si sarebbe concentrata sull’arte negli spazi pubblici nei luoghi di confine. Infatti la Regione di Barents coinvolge i confini tra Norvegia, Russia e Finlandia a 300 Km oltre il Circolo Polare, dove sono già stato artista in residenza un paio di anni fa. Ho riflettuto a lungo sul progetto da proporre e poi ho capito che sarebbe stata l’occasione giusta per attuare l’idea che avevo in mente da un po’ di rendere nomade la linea di luce di Manifesta 7. All’Artico volevo attraversare il confine russo e volevo poi “spararla” in maniera del tutto inaspettata in un viaggio per arrivare fino a là. Non avevo idee sulla partenza, ma ho pensato che Dolomiti Contemporanee sarebbe potuta essere l’istituzione italiana perfetta per essere parte del progetto. Quando sono andato ad incontrare per la prima volta il suo curatore Gianluca d’Incà Levis l’appuntamento era a Casso.

Arrivando in macchina mi è apparsa davanti agli occhi la diga del Vajont e ho capito che non sarei potuto partire che da lì.

È la prima volta che realizzi un’installazione di questo tipo? Che “unisci” le montagne? Da cosa hai capito che le installazioni luminose erano il tuo personale codice per comunicare i tuoi messaggi, le tue riflessioni, il tuo sentire fisico, emotivo, mentale?

L’installazione di luce che porterò dalle Dolomiti all’Artico è l’evoluzione di un precedente lavoro che ho realizzato nel 2008 come evento parallelo a Manifesta 7 a Trento. In quell’occasione una linea di luce orizzontale attraversava il cielo sopra Trento muovendosi da nord a sud cancellando i confini, non tanto quelli politici, ma quelli culturali, quelli mentali.

Quell’opera poi mi ha portato fortuna perché grazie ad essa ho vinto il Premio Terna per l’Arte 02 che mi ha portato per 6 mesi a New York all’International Studio and Curatorial Program (ISCP) e, successivamente, in mostra a Shanghai al SUPEC durante il World Expo.

È già stata la luce, dunque, a creare un ponte tra Dolomiti e metropoli…

In altre occasioni sono ricorso alla luce: per segnali Morse che parlavano di libertà dalla Petrin Tower a Praga in occasione dell’anniversario della Primavera di Praga, o ancora che dalla finestra di un quartiere popolare di Bruxelles traducevano in tutte le lingue dei suoi abitanti le coppia di parole antitetiche “Confido – Diffido”.

Ho inserito l’uso della luce anche in delle mie opere permanenti… Credo che questo mio rapporto con la luce sia strettamente connesso con la mia natura di video artista e il video è essenzialmente luce.

L’opera consisterà in un fascio luminoso lungo 15 km in grado di abbattere confini, dimensioni spazio-temporali, di creare un collegamento verticale (nonostante la sua forte orizzontalità) tra il passato e il presente, tra il fatto tragico che ha segnato la storia di quei luoghi ed un presente di memoria e celebrazione. Come, concretamente, realizzi questo fascio di luce? Mi viene da immaginarti come una sorta di Hans Kammerlander appiccicato alla parete, animato dalla ricerca non della conquista della vetta, bensì dell’appiglio migliore dove agganciare i germi evocativi della tua arte…

Hai ragione: la definisco proprio “spedizione” e l’ho concepita come un’avventura nella quale cercherò la Fine del Confine. Il limite sarà quello fisico degli oltre 4.000 km che mi separano dalla Regione di Barents, il limite che oltrepasserò con azioni luminose improvvisate lungo il viaggio in forma di snap actions (azioni improvvise e inaspettate). Ma soprattutto sarà un confine simbolico…

Quando sono stato all’Artico per la prima volta due anni fa, mi sono allontanato lungo i fiordi in completa solitudine, accompagnato solo da videocamera e treppiede (che si ricopriva di ghiaccio per via delle rigide temperature invernali del Polo). Avevo bisogno che fosse così, per entrare in un contatto unico con quella natura così cruda.

Anche questa volta non ho voluto staff con me. Ho già avuto esperienze on the road: nel 2006 arrivando alla Biennale di Berlino col progetto Bird Flu Vogelgrippe; girando per l’isola alla prima Biennale di Singapore; a Taranto due anni fa per un progetto sull’Ilva. Ogni volta, però, le modalità cambiano.

Per la spedizione verso l’Artico guiderò un furgone con a bordo un generatore di corrente e un faro capace di generare un potente fascio di luce. Avrò quindi a disposizione una working station mobile.

Questo stesso fascio di luce verrà riproposto anche nelle altre 6 località dove la tua arte troverà manifestazione. Come documenterai questo tuo “work in progress”, questa tua scoperta ed esplorazione?

Sarà un progetto on the road molto intenso, tutto documentato e diffuso in progress. Un dispositivo Geolocator farà sapere sui social network la mia posizione aggiornata in continuazione. Ho creato un gruppo su Flikr dove caricherò istantaneamente le immagini del viaggio e della luce. Da lì, esse verranno caricate direttamente sulla homepage del sito dedicato www.endofborder e sui social network. Immagini e video verranno pubblicati anche su una Google map pubblica.

Per la partenza al Vajont ci saranno probabilmente dirette video su web tv.

Infine all’interno della Barents Triennale mi è già stato chiesto di tornare a luglio a Kirkenes perpartecipare ad una tavola rotonda sull’arte pubblica in zone di confine e di tornare anche nel febbraio del 2014 per presentare tutto il risultato del mio progetto/spedizione.

In base a quali criteri hai scelto le sedi della tua testimonianza artistica?

Sono fissi il punto di partenza (Casso), quello di arrivo (Kirkenes) e una tappa intermedia a Oslo, dove l’Ambasciatore terrà un ricevimento per celebrare la prima partecipazione dell’Italia alla Barents Triennale.

In totale la spedizione attraverserà 7 nazioni, dove la linea di luce farà la sua comparsa senza preavviso e verrà vista, complessivamente, da centinaia di migliaia di persone.

È la prima volta che lavori all’interno di Dolomiti Contemporanee?

Sì, e non poteva esserci occasione migliore.

E io non posso che essere d’accordo con Stefano: Dolomiti contemporanee nasce nel 2011 come laboratorio di arti visive in ambiente ed è un progetto di arte contemporanea che si colloca nel cuore delle Dolomiti, patrimonio dell’Unesco. Il suo ideatore e curatore Gianluca D’Incà Levis in questi anni è riuscito a far parlare i luoghi dimenticati e abbandonati del territorio montano del nord-est, attraverso dei progetti artistici di grande valore non solo creativo, ma anche simbolico. L’artista, in questo caso Stefano Cagol, è chiamato a narrare la sua opera, creando un’interazione con la natura e con lo spazio espositivo che la accoglie, in modo tale che esso riprenda vita e diventi luogo di scambio e origine di nuovi stimoli. Casso vi attende, dunque, per coivolgervi in un’esperienza unica che lascerà in voi una luminosa traccia!

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