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February 18, 2013

Berlinale Days #05

Cristina Vezzaro

La grande differenza tra vedere gli attori recitare e sentirli in conferenza stampa è che dal personaggio impari a distinguere la persona. E le sorprese non mancano.

In Side Effects, l’ultimo film di Steven Soderebergh, Jon Banks (Jude Law) è un analista inglese che vive a Manhattan e lavora in un ospedale. Entra in contatto con una ragazza (Rooney Mara) che sembra aver tentato il suicidio. Inizia a seguirla privatamente nel suo studio e ad aiutarla a superare la sua depressione mentre capisce che il marito di lei è stato in prigione quattro anni per insider trading a Wall Street. Dopo essersi consultato anche con la sua precedente analista (Catherine Zeta-Jones), e aver constatato che i primi psicofarmaci che le propone non sembrano avere effetto, passa quindi ad altri, suggeriti addirittura dalla stessa ragazza. Da questa scelta in poi, gli eventi precipitano in un thriller psicologico molto ben costruito, tanto da non sapere fino all’ultimo quali sviluppi ci aspettano, con un’ottima recitazione e un plot perlopiù ben ideato. Solo un paio di punti risultano poco convincenti, in particolare quando l’analista (ma certo è un analista, mica un essere umano normale!) vede crollarsi tutta la vita davanti e nel giro di un nulla si ripiglia andando a caccia della verità; e una scena lesbo che è un pretesto mal costruito e poco convincente e sembra più una concessione a esigenze altre che non un anello necessario nella costruzione della storia. E se alle domande spinose si preferisce non dare risposta, mentre Jude Law non risparmia riflessioni profonde che danno idea di una maturità non solo anagrafica, Rooney Mara non riesce ad andare oltre alla parte della bambolina incantata, a cui lo stesso Soderbergh a un certo punto ricorda con fare tra il professionale e il tirannico: Rooney, siamo in conferenza stampa vedi di rispondere.

Pari divario di personalità e professionalità nella conferenza stampa di Layla Fourie, il bel film della regista tedesca Pia Marais, un thriller nella Sud Africa contemporanea, dove Layla (Rayna Campbell), una donna nera, cresce da sola un ragazzino (l’adorabile Rapule Hendricks) e finalmente trova un lavoro interessante. Nell’impossibilità di lasciare il ragazzino lo porta con sé, e mentre viaggia di notte succede un brutto incidente attorno al quale ruoterà l’intera vicenda. La sua libertà e la sua vita dipenderanno in primo luogo dalla capacità del ragazzino di non dire quanto è successo e dal sottile equilibrio tra realtà e menzogne che saprà costruire nella relazione con Pienaar (un eccezionale August Diehl). Sebbene debole nella costruzione (la presunta storia d’amore è mal preparata e poco convincente), la parte di thriller psicologico è estremamente ben costruita e il conflitto tra mondi e classi è interessante. Peccato non aver sentito nemmeno la voce della protagonista, tanto convincente nella recitazione quanto inconsistente nella presenza di persona. Di tutt’altro calibro August Diehl, in grado di discorrere sul suo personaggio e sulla situazione che il film costruisce con maturità professionale e personale.

Confusione, invece, di personaggi e persone con risultati decisamente pessimi nel film dell’iraniano Panahi, Closed Curtains, da un’iniziale (interessante) fuga attorno a un presunto delitto e al rischio della vita per il proprio cane, a un labirinto tutto mentale del processo creativo in cui i personaggi appaiono e scompaiono a seconda di come gira al regista o riappaiono nella sua mente senza un minimo di possibilità, per lo spettatore, di seguirne il pensiero, tanto da avere un effetto soporifero per la stessa Shirin Neshat, a un metro da me e difficilmente in grado di seguire con attenzione il film nella sua stessa lingua.

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