Music

December 11, 2012

Gianmaria Testa (stasera al Cristallo): “Se tolgo la libertà alla mia musica, non rimane niente”

Marco Bassetti

Con quella voce che sa di Langhe e di vento, Gianmaria Testa è uno dei grandissimi della canzone d’autore italiana. Sempre sospeso tra il dire e il non-dire, è lo chansonnier dello spaesamento, del disincanto, della fragilità dell’esistenza, dell’incontro con l’altro: “c’era dell’altro fra noi / dire che cosa non so / se un bacio, un cane o una rosa”. Uno che lavora per sottrazione, squarciando il velo retorico che avvolge il mondo come una melassa, nel tentativo di raggiungere qualcosa di autentico, il nucleo vivo delle cose. Con una parabola artistica lontana dalle luci della ribalta mediatica, ha regalato alla canzone italiana alcune delle gemme più preziose degli ultimi anni, saltellando con eleganza tra jazz, folk, rock, bossanova e tango. Questa sera (martedì 11 dicembre) Testa porta al Teatro Cristallo i suoi ultimi due lavori, Da questa parte del mare (2006, Targa Tenco come miglior album dell’anno) e Vitamia (2011). Lo abbiamo intervistato.

In Da questa parte del mare (2006), lei ha affrontato il tema dell’immigrazione. Qual è la sua visione?
La situazione è sotto gli occhi di tutti. L’Italia ha fatto delle leggi che non tengono conto dell’umanità delle persone e non lo dico io, l’ha detto l’Europa. Rispetto alla forza della disperazione che quelle persone che vengono da noi si portano dietro, i muri non servono a niente. L’Italia di tutti i paesi dell’Europa occidentale è quella che ha fornito il più alto numero di emigranti, ci sono delle statistiche che dicono che dal 1870 al 1950 sono partiti 40 milioni di italiani. Tutto questo è successo fino a due generazioni fa, per cui noi più di altri questo fenomeno lo conosciamo bene. Piuttosto maltrattati un po’ ovunque in giro per il mondo, poi nello spazio di una-due generazioni ci siamo completamente integrati. Questo succederà più o meno a chiunque. Un’immigrazione massiccia comporta inevitabilmente dei problemi, però dal mio paese, che si vanta di essere non so se l’ottava o la decima potenza economica mondiale, mi aspetto un atteggiamento responsabile. Affrontare la tematica semplicemente con dei divieti mi sembra assurdo. Queste sono un po’ le ragioni che mi hanno portato a scrivere questo disco, ma non perché penso che i dischi cambino qualche cosa, non cambiano un bel niente. L’ho scritto per me, per me e i miei figli, per il senso di disgusto e anche di colpa che mi attanaglia.

Senso di colpa per cosa?
Per quello che è accaduto in questi anni e continua ad accadere oggi. Che dei partiti politici fondino la loro esistenza sulla battaglia contro l’immigrazione mi pare allucinante. Come sappiamo, è dalla commistione che il genere umano si rafforza, non dalla separazione. Non c’è niente di più triste e di più malato delle dinastie reali che si accoppiano tra di loro perché producono degli imbecilli, è un dato di fatto. Però molti dei nostri politici hanno trasformato tutto questo in paura, in una generalizzatissima paura che non ha motivazioni di fondo.

Nessuna motivazione, se non quella politica…
Certo, la vera ragione è il vantaggio elettorale immediato. Però è anche tempo di dire basta, piantiamola con le bufale.

A di là della tematica, è la forma dell’album che lo rende così potente e necessario nella sua inattualità. Si tratta di un concept album, come quelli che si ascoltavano una volta, nell’epoca pre-internet.
Pensavo che per me fosse più facile e invece è stato difficilissimo. Quindi ho ancora di più apprezzato i concept che ha fatto un come De Andrè, uno più bello dell’atro. Io ci ho messo una vita a scriverlo… Non volevo che un tema che mi sta così a cuore venisse sparpagliato qua e là, quindi ho tenuto sempre da parte le canzoni che andavano verso questo tema. Nella mia testa è un po’ come un libro con dei capitoli, c’è la partenza, la descrizione degli immigrati, l’arrivo sullo sponda sbagliata del  mare, eccetera. Dal punto di vista commerciale, sì mi rendo conto che sia una scelta in controtendenza. Oggi nessuno più compra i dischi, siamo tornati al 45 giri, alla canzoncina che passa in radio e che ti scarichi da qualche parte. Ma a me questa roba non mi è mai interessata e non mi interessa neanche adesso. Se tolgo alla mia musica la libertà, cosa vuoi che rimanga? Non rimane niente, non sono mica Mozart. Se quello che faccio poi risponde alle esigenze del mercato del momento, naturalmente sono più contento. Se non risponde, fa lo stesso. Non scrivo per vendere, ci sono cose che uno fa perché le deve fare. Perché si sente di farlo.

Se Da questa parte del mare era un disco rivolto all’esterno, Vitamia invece nasce dall’esigenza di guardarsi dentro. Dopo tanti anni di vita e di canzoni, sentiva l’esigenza di fare un bilancio?
Non si tratta di un bilancio, i bilanci sono sempre inutili. Tra i due dischi sono passati 5 anni, durante i quali la situazione in Italia era tale per cui mi sembrava che ogni parola fosse perfettamente inutile a raccontare quel che succedeva. E siccome non ho mai voglia di aggiungere parole alle tante parole che già ci circondano, mi sono trattenuto e per molto tempo non ho scritto niente. Le parole di questo nuovo disco non le considero certo indispensabili, ma lo sono per me. L’imput è stato lo spettacolo teatrale “18 mila giorni” che abbiamo portato in giro con Giuseppe Battiston, scritto da Andrea Bajani, per il quale ho scritto sette delle canzoni che poi sono finite nell’album. La storia di un uomo che viene licenziato e che con questo non perde solo il lavoro ma anche l’identità e la dignità sociale. A quelle sette canzoni ho aggiunto poi una serie di canzoni molti più individuali, molto più personali. Diciamo che lo considero una specie di diario, personale ma condivisibile.

Questo desiderio di non aggiungere parole alle molte parole vuote che si consumano velocemente è parte fondamentale della sua poetica. Ha dichiarato: “La ricerca musicale che ho portato avanti in questi anni ha coinciso con il togliere” e a questo proposito cita l’opera di Giacometti e di Ungaretti. Da dove nasce questa esigenza espressiva “sottrattiva”, piuttosto che “additiva”?
Viviamo in tempi in cui è pieno di gente che dà delle ricette. Ma il mondo è molto più complicato di come ce lo configurano, vivere è una faccenda complicata. La semplicità credo sia, però, un punto di partenza comune: se io riesco a togliere tutto il superfluo, tutte le parole inutili, e a trovare quelle giuste, rimane quella che io considero una specie di essenza, che mi permette di comunicare più facilmente con il mio prossimo. I paroloni, il politichese, il sindacalese, il poetichese, mi interessano poco. La retorica la considero, specie in questi tempi, veramente inutile. E infatti va di pari passo con la demagogia, con il populismo. Francamente non ne posso più di questa roba qua.

A proposito di populismo, sono questi i giorni del “ritorno in campo” di Berlusconi. Anche di questa logora metafora calcistica, francamente, non se ne può più…
Sul ritorno di Berlsuconi non mi viene nient’altro che una sequenza di cose che non posso dire. Poveri noi, povero lui, non so cosa dire… Non so se ci sia uno spiraglio di luce per il futuro, devo dire che non mi è dispiaciuta la partecipazione delle gente alle Primarie del Pd. Il fatto che ci sia di nuovo gente che ha voglia di partecipare mi sembra un fatto positivo.  Credo che non ci siano più da nessuna parte ricette semplici, io mi aspetterei che chiunque vinca le elezioni questa volta non festeggiasse perché non c’è proprio niente da festeggiare. Chiunque si carichi sulle spalle un peso come quello in questo momento storico non ha niente da festeggiare. Se è una persona onesta e vuole fare del bene per il suo paese, dovrebbe comportarsi come un eroe, zitto, testa bassa e pedalare.

In questa ottica, come giudica il lavoro portato avanti da Grillo e dal M5S? Ho letto, con sorpresa, gli elogi di Mina a favore del comico/condottiero genovese…
Il fenomeno Grillo lo giudico come un prodotto tipico di questi anni di confusione totale in cui la grande vittima è la verità. Personalmente non ho nulla contro Grillo, ma avrei difficoltà ad affidare un paese in mano al movimento da lui costruito, perché credo che ci voglia veramente un’esperienza di tipo diverso. Poi sono stanco delle personalizzazioni della politica, la faccia, il guru, le parole ad effetto, l’attraversamento dello Stretto, gli spettacoli… Basta, non se ne può più, la politica è una cosa più seria. Insomma, non sono d’accordo con Mina, diciamo così.

www.teatrocristallo.it/www/index.php/it/home/183-comunicato-stampa-gianmaria-testa-in-solo.html

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