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May 31, 2012

People I know. Riccardo Rizzo: la vita è un cerchio che comincia da un muro

Anna Quinz

Le vite delle persone, a volte procedono in linea retta, altre ancora disegnano un cerchio, che da un punto parte e allo stesso punto, torna. La vita di Riccardo Rizzo, classe 1977, profondità e dolcezza innate che traspaiono dallo sguardo attento e aperto verso ciò e chi lo circonda, ha seguito questo percorso, delineando un cerchio perfetto, iniziato con l’arte del graffito, negli anni ‘90,.Riccardo comincia sui muri il proprio percorso personale e artistico, divenendo un vero e proprio “mito” a Bolzano. È stato infatti, uno dei primi e dei più noti bolzanini a far fiorire una vera e propria “età dell’oro” di questa particolare pratica dell’arte, uno dei primi a fare della bomboletta uno strumento d’arte anche in Alto Adige. Ma la storia di Riccardo, il cerchio disegnato dalla sua vita, va molto al di là di ciò che ha scritto con lo spray: l’avvicinamento all’arte sacra e alla spiritualità, prima, e poi l’approccio, anche professionale, verso il mondo del sociale, sono solo due esempi dei tanti e variegati interessi di questo giovane uomo sempre in cerca di risposte, ma anche e soprattutto capace di porsi delle domande. Attualmente Riccardo lavora per Volontarius, che si occupa di assistere persone in difficoltà, come profughi o senza tetto. Per l’associazione, organizza attività di animazione, che coinvolgono anche l’arte, e, naturalmente – la chiusura del cerchio – l’arte sui muri.

Dopo il punto iniziale, gli anni d’oro dei graffiti a Bolzano, come è proseguito il suo percorso?

Durante lo studio all’Accademia di Belle Arti di Bologna, mi sono allontanato dai graffiti per avvicinarmi all’arte classica, allo studio dell’anatomia, della metafisica del simbolismo. Da lì, sono passato all’arte sacra, dove studiando in “bottega”, come nel Medioevo, ho re imparato la pittura da zero. L’arte sacra perché era un momento in cui il mio percorso nella vita e nell’arte si incrociavano, perché stavo facendo una profonda ricerca spirituale e poi perché è in fondo la radice dell’arte occidentale, nonché base della comunicazione, così come la conosciamo oggi. Ho fatto il servizio civile presso un monastero a Cesena dove si dipingevano icone. Era un ideale coronamento di questo mio percorso personale e artistico. Anche se, mi aspettavo di dipingere icone, e invece mi sono trovato a fare la vita da monaco. In quel periodo ho anche pensato di prendere i voti, naturalmente, ma poi ho capito che non era la mia strada, anche se la ricerca spirituale è rimasta una componente forte nel mio vivere e lavorare.

Il mondo del graffito (spesso associato all’”illegalità”) e quello dell’arte sacra, sembrano così lontani…

In realtà non è così. Chi fa graffiti, è mosso da una forte spinta interiore. E in fondo, non c’è una grossa differenza tra questa spinta e quella di chi realizza arte sacra. Non per niente si dice “scrivere icone”, e il graffitista si chiama “writer”. In entrambe i casi dunque, si scrive in qualche modo una storia, e si fa comunicazione. Spiritualità e arte, non sono affatto lontane. Tutt’altro.

La tappa successiva della sua vità, la chiusura del cerchio che l’ha riportata a Bolzano?

Dopo le icone e la voglia di vivere da vicino quello che nelle icone dipingevo, ho sentito il bisogno di riprendere un contatto con la realtà. Anche per questo ho cercato un lavoro nel sociale, e al centro profughi, luogo duro ma coinvolgente, mi sono riconciliato con il reale. Bolzano in quel momento viveva anche un fermento artistico e volevo far parte di questa rinascita. Dal 2006 circa ho ripreso in mano gli spray e progressivamente è nata in me sempre più forte la voglia di contribuire a dar vita a una nuova “età dell’oro” dei graffiti a Bolzano. Poi ho incontrato un vecchio amico, Sanue B-one, e insieme a lui ho iniziato non solo a dipingere ma anche a organizzare eventi in questa direzione, come il progetto MurArte, che coniuga i graffiti e il lavoro che faccio con i profughi.

Lavora a stretto contatto con storie di disagio, con persone emarginate e con problematiche per noi a volte difficili da immaginare. Come vede Bolzano, attraverso lo sguardo degli “emarginati” che bene conosce?

Quello che emerge è la difficoltà per gli “emarginati” di essere visti come “persone”, come cittadini a tutti gli effetti. Non si tratta solo di un problema bolzanino certo, ma qui abbiamo una generalizzata incapacità di vederci come normali: siamo troppo abituati a sentirci speciali, senza mai pensare che un giorno le cose potrebbero cambiare, e che potremmo trovarci da un momento all’altro, dall’altra parte. Ma quanto a lungo potrà durare “l’Eden Bolzano”, mi chiedo? Qui, più che cercare di cambiare atteggiamento, si rischia spesso di spazzare la polvere sotto il tappeto. E questo è un atteggiamento molto rischioso. Bolzano non è diversa dal resto del mondo, meglio rendersene conto.

Cosa auspica per una Bolzano migliore dunque?

Bolzano dovrebbe riflettere sul coraggio di cambiare. Quando si sta bene, o si crede di stare bene, perché si dovrebbe cambiare? In ogni ambito e settore, Bolzano si distingue dal resto d’Europa per questa tendenza ad adagiarsi, ma deve capire che sperimentare non significa “fare cose strane”, ma semplicemente guardare al di là dei luoghi comuni, delle etichette, del proprio ombelico.

 Pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 27 maggio 2012 

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