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May 3, 2012

Il TrentoFilmFestival riconferma il suo alto livello qualitativo

Marco Segabinazzi

Dopo i primi giorni

di programmazione si conferma la tendenza, ormai evidente al Trento Film Festival da alcuni anni a questa parte, a proporre cinema internazionale di qualità, con una selezione che nulla ha da invidiare a quelle di altre blasonate rassegne europee.

Un inciso, prima di tutto: la sigla del Festival dalle sonorità marcatamente drone, affascinante e inquietante nella sua essenzialità, si accosta perfettamente ai toni sghembi di alcune delle visioni a cui si è assistito finora. Si tratta di una clip dello spettacolo Bora, collaborazione tra il regista Yuri Ancarani e Stephen O’Malley (nota per i noisers che potrebbero aver pensato a un’omonimia: no, è proprio lui), che non è in programma al Festival ma che speriamo di vedere presto da queste parti[1].

Se uno dei più ricorrenti luoghi comuni della critica cinematografica risiede nell’attribuire a un regista il merito di porsi ancora il problema di dove mettere la macchina da presa, con Victor Kossakovsky tale strumento si aggiorna e giunge a uno scarto ulteriore, per cui la domanda diventa come mettere la macchina da presa. ¡Vivan las Antipodas!, in concorso, si apre con una citazione dell’Alice in Wonderland di Carroll, indirizzando lo spettatore verso il continuo scarto di prospettiva cui sarà sottoposto per l’intero film: il cineasta russo filma la vita e lo scorrere del tempo in otto tra i (pochi) luoghi abitati del pianeta agli antipodi tra loro, talvolta capovolgendo – letteralmente – la macchina da presa, nella ricerca di una misteriosa connessione fra queste località diversissime tra loro (Entre Rios, Argentina/Shanghai; Patagonia, Cile/ Lago Baikal, Russia; Botswana/Hawaii; Spagna/Nuova Zelanda).

Kossakovsky aggiorna il film “planetario” à la Godfrey Reggio (alleggerendolo anche grazie ai dialoghi tra i due fratelli argentini, personaggi dal carattere vagamente beckettiano, con cui è cadenzato lo scorrere del film), spostando lo sguardo sempre “al di là”, costringendosi e costringendoci ad interrogarci sull’altrove e sulle contraddizioni del pianeta, tutto questo attraverso espedienti narrativi e di montaggio che per l’intera ora e tre quarti di durata del film non mostrano mai la corda e ci restituiscono un’opera che – ricercando analogie con un tema caro alla rassegna – può essere vista come un’esplorazione dei Poli, dove polo è ognuna delle località in cui ¡Vivan las Antipodas! è girato.

L’enfant d’en haut, proiettato in anteprima nella sezione eventi (Sister è il titolo con cui sarà distribuito dalla prossima settimana nelle sale italiane) conferma la propensione della regista Ursula Meier a raccontare i dropout (nel precedente Home – distribuito in Italia con l’idiota titolo Home-Casa dolce casa? – era protagonista un’altra famiglia marginale, in un contesto comico surreale e straziante nel contempo). L’enfant d’en haut mostra una Svizzera lontana da ogni stereotipo, lacerata dal contrasto fra il quartiere popolare della cittadina del Canton Vallese in cui il giovane protagonista vive insieme alla sorella maggiore disoccupata (una Léa Seydoux in una veste decisamente distante dal recente ruolo in Midnight in Paris di Woody Allen, con cui si è fatta conoscere al grande pubblico) e gli impianti sciistici che lo sovrastano, affollati dal ricco turismo delle settimane bianche. Gli elementi di comica e straniante surrealtà che avevano caratterizzato Home lasciano lo spazio a tonalità più cupe, con il notevole contributo delle musiche originali di John Parish.

Solar System, del regista tedesco Thomas Heise, si concentra sulla quotidianità fatta di duro lavoro e rituali familiari della piccola comunità dei Kolla, una popolazione indigena argentina di Tinkunaku, nel distretto di Oràn, ai piedi delle Ande. Interamente costruito sulle immagini (i pochi dialoghi non sono tradotti poiché è stato impossibile trovare un interprete che conoscesse la lingua dei Kolla), Solar System, riprendendo la giornata di una comunità a rischio di estinzione, assume i tratti di un ciclo arcaico ed eterno – come le stagioni o, appunto, il sistema solare – che può essere interrotto solo dall’irruzione della modernità e dell’urbanizzazione, mostrata nel lungo e straziante carrello finale sugli slums di Buenos Aires, sinistro presentimento di un futuro che per molti dei Kolla è già presente.

L’edizione di quest’anno ha confermato l’interesse dei selezionatori verso territori cinematografici fino a poco fa estranei al Trento Film Festival, come nel caso della commedia norvegese King Curling, ambientata appunto nel mondo di questo sport invernale che da queste parti aveva suscitato una certa curiosità in occasione delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Con una struttura piuttosto debole, King Curling riesce tuttavia a sfruttare al meglio gli spunti comici insiti nella natura di outsider di uno sport di nicchia come il curling e dei personaggi – stilizzatissimi – che ne popolano l’universo. Anche se a quanto pare la fonte principale di ilarità di parte del pubblico in sala era costituita dalla lingua norvegese stessa (o quanto meno lo era per i vicini di posto che hanno letteralmente reso un inferno la visione del film da parte di chi scrive).

Chiude questa parziale carrellata sui primi giorni di programmazione della rassegna trentina il teso e potente How I Ended This Summer di Alexei Popogrebsky, per la sezione Destinazione Russia, diviso a metà fra la vita – nella prima parte – degli unici due abitanti della stazione di rilevamento meteorologico di Chukotka, all’estremo Nord fra Russia e Siberia, e la più concitata seconda parte, dai toni di una disperata fuga ai confini del mondo. Un dramma che riflette sulla vita e sulla morte, sull’alienazione e l’incomunicabilità che si compenetrano alla perfezione con il paesaggio, sconfinato e di una bellezza desolante, dell’Artico.



[1] Yuri Ancarani fu ospite della scorsa edizione del Festival con il cortometraggio Il Capo.

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