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March 1, 2012

London calling. Day #03. Tate Modern

Cristina Vezzaro

“Keep it local” sembra essere lo slogan di questa visita londinese, e per questo mi muovo in un ristretto raggio accanto a casa. Colazione al Globe Theatre e via alla Tate Modern, contrappunto moderno alla Tate Gallery oltre il Tamigi. L’edificio in mattoni rossi ricorda una fabbrica ottocentesca con tanto di ciminiera. All’interno gli spazi sono molto ben organizzati e piacevoli da esplorare, tra arte moderna e contemporanea, esposta per temi (Poetry and Dreams, Energy and Process, States of Flux) senza che manchi una sezione dedicata alla fotografia.
A colpirmi è un’opera dell’artista libanese Lamia Joreige, anno 1972, che ricostruisce in un’opera intitolata “Objects of War” il modo in cui, attraverso un oggetto, le persone che hanno vissuto la guerra in Libano la ricordano. Oggetti che diventano amuleti o simboli importanti di certezza quando certezza non ve n’è né si ha la prospettiva di un futuro. Un walkman accompagna così un’adolescente nei rifugi e una canzone, in particolare, riesce a toglierle dal petto l’ansia della paura, “because music is appetite for life”. Una lotta tra coinquilini di un appartamento sembra far dimenticare la guerra che imperversa per le strade. E quello che molti credono sarà un breve episodio della loro vita si trasforma in un incubo con cui convivere. La semplicità con cui le persone intervistate raccontano di un’esistenza in stato di guerra è potente e riesce a far percepire il tentativo estremo, continuo, instancabile di vita sotto la continua minaccia di morte.

All’ultimo piano della Tate Modern un caffè-ristorante affaccia sul Tamigi per una vista mozzafiato su St. Paul e la City, tra passato e futuro, tra cupole e guglie, ferro e acciaio.

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