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February 3, 2012

Terrore e miseria del Terzo Reich. Brecht in scena a Trento

Massimiliano Tonini

In occasione della messa in scena di Terrore e miseria del Terzo Reich, sabato 4 febbraio 2012 al Teatro San Marco di Trento alle ore 21, abbiamo incontrato l’attrice e regista Michela Embrìaco, che ha dato vita, insieme all’educatrice Tania Faes, a una realtà teatrale chiamata Multiversoteatro, attiva a Trento dal 2009. Questa associazione ha all’attivo diversi progetti tra cui produzioni teatrali attente ai problemi sociali, letture pubbliche, laboratori e seminari di recitazione e teatroterapia.

Mi sembra interessante partire dalle vostre attività, diversificate, ma comunque sempre legate al mondo del teatro. Ci puoi parlare della vita di questo progetto e, in particolare, di che rapporto c’è tra lo spettacolo, nel momento della sua messa in scena, e il laboratorio o seminario di recitazione?

Il discorso laboratoriale fa proprio parte della nostra modalità di lavoro. Noi, come Multiversoteatro, siamo una realtà piuttosto giovane nel panorama teatrale locale. Uno dei nostri primi lavori è stato Kassandra, ispirato al libro di Christa Wolf. Poi è venuto Mirijana, un testo “difficile” sul tema dello stupro come arma di guerra, di ambientazione balcanica ma potenzialmente globale nelle sue implicazioni. Un lavoro, Mirijana, diretto da Mirko Artuso, regista vicino a un teatro di narrazione, ma che anche come ricerca stilistica implementava strumenti multimediali a fini narrativi, quali video, fotografie, proiezioni…

Al tempo della sua uscita ricordo che di Mirijana se ne è parlato, anche sulla stampa, ma il tema in sé dello stupro credo sia ancora un po’ un tabù, e comunque qualcosa di cui si è piuttosto restii a parlare. Tu cosa ne pensi, vista anche l’esperienza attorale di immersione in un personaggio sfregiato da questo tipo di violenza?

Diciamo che, usando un eufemismo, è una questione complicata. E delicata. Non c’è molta ricezione su questi argomenti, un po’ perché purtroppo di queste cose si parla solo quando sono di attualità alla televisione, nei telegiornali, per qualche evento di cronaca. I balcani in questo momento non sono molto “sentiti”, e anche il tema dello stupro tende in sé a turbare.

Mi inserisco in questo tuo ragionamento perché effettivamente oggi, a livello commerciale, c’è voglia di un intrattenimento lieve e che distolga dalle preoccupazioni quotidiane. Però è anche vero che proprio di recente, in occasione delle celebrazioni per la Giornata della Memoria, ci sono stati degli appuntamenti importanti sul territorio e con un buon riscontro di pubblico. Penso, in particolare, alla rappresentazione di Am grossen Wannsee di Renzo Fracalossi e a quella con Andrea Castelli su Eichmann e la banalità del male. Il lavoro tratto da Brecht di cui sei regista, Terrore e miseria del Terzo Reich, sembra inserirsi molto bene nel novero di queste opere di grande impegno sociale e civile… A proposito della regia, tu nasci come attrice ma in questa produzione non reciti, c’è una ragione specifica di questo fatto, oppure è solo un caso?

A livello di intensità sento più la dimensione attorale. Però la regia è molto interessante e importante per lavorare sul distacco. Serve molto anche per il lavoro attorale, perché riesci ad avere un occhio esterno rispetto a quello che fai e ad avere un rapporto più distaccato.

In questo Terrore e miseria, come nello spettacolo precedente che abbiamo allestito, La follia di Ofelia, mi occupo della regia senza recitare. In quella occasione, così come in questa, l’idea per l’allestimento nasce da un’esperienza laboratoriale. In realtà allora si trattava di un gruppo di miei ex-allievi che con me avevano seguito un laboratorio sul tema del corpo e della follia, e che si è trasformato in un lavoro molto sentito sia nell’interpretazione che nella ricezione.

La scelta del testo di Brecht nasce da un’esperienza simile. Originariamente era stato scelto come saggio per un gruppo di miei allievi. In seguito questo stesso gruppo di attori ha partecipato a La follia di Ofelia e, nell’ambito di Multiversoteatro, abbiamo poi deciso di riprendere in mano il testo brechtiano per farne uno spettacolo. C’era quindi già una base di lavoro a livello di ricerca e di esperienza laboratoriale. Così è nato questo progetto che si basa su un testo molto particolare. Intanto è un testo in cui Brecht riprende il concetto di interpretazione, a differenza degli altri scritti del periodo, intorno al 1938, che si fondano sul concetto di straniamento. Brecht, con quest’opera, manifesta l’urgenza di comunicare in maniera più efficace possibile, vuole essere diretto, crede ci sia ancora la possibilità di sollevare le coscienze prima del disastro che verrà.

E così dall’esperienza laboratoriale nascono idee che poi si possono convertire ed elaborare in spettacoli teatrali?

Assolutamente sì. Questo è il nostro modo di operare. La formazione fa proprio parte del nostro percorso. Non è una struttura a comparti stagni, ma un insieme organico di esperienze che vanno dalla teatroterapia al teatro di ricerca, e che ha come punto fermo l’idea dell’ascolto, della percezione… Tutti aspetti che poi tendono a confluire anche nell’espressione artistica della rappresentazione teatrale davanti a un pubblico. Alla fine il grande contenitore è quello del teatro.

Mi sembra di capire che alla base del tuo sentire ci sia, in qualche modo, la ricerca della creatività, intesa sia come sfida a te stessa nell’allestimento di spettacoli di alto livello, sia come percorso umano, per esplorare territori interiori sepolti dalle consuetudini e dalla routine…

Il concetto di fondo è proprio la ricerca della creatività. Mi piace l’idea di cercare una strada che possa coniugare queste due dimensioni, la persona, nella sua ricca poliedricità e la creatività nelle sue più diverse manifestazioni. Il rapporto dialettico che cerchiamo di implementare tra esperienze laboratoriali, teatroterapia e messe in scena di spettacoli teatrali dà vita a una sorta di gioco paradossale per cui attraverso la maschera ti sveli. La “maschera” diventa uno strumento attraverso il quale si rivela una parte di noi. In questo gioca molto la teatroterapia, nel tentativo di far emergere la personalità poliedrica dell’individuo. Ognuno, nella propria interiorità, coltiva diversi personaggi e il teatro ti permette di giocare su questo e di ampliare così anche le nostre modalità di espressione, piuttosto che irrigidirci in modalità che ci portiamo dietro un po’ per percorso personale, per lavoro, per tanti fattori… Mentre il teatro ti permette di giocare con queste possibilità, che comunque ci sono. Si tratta di esplorarle.

La messa in scena di Terrore e miseria pone, proprio a livello registico, dei problemi, o diciamo meglio, delle scelte, molto peculiari. Tu che linea hai adottato in questo senso?

Questa pièce di Brecht è composta da 24 scene drammatiche. Scegliere di mettere in scena tutte le situazioni è quasi impossibile, quindi mi sono concentrata sugli episodi che per intensità e significato paradigmatico mi sono sembrati più rilevanti. Tra questi sicuramente La croce di gesso, Lo spione e La moglie ebrea, che chiude lo spettacolo.

Le scene sono quasi dei flash, delle istantanee di vita quotidiana, e permettono di giocare tra immedesimazione e straniamento. Quello che emerge da tutte le scene è proprio il terrore che avvolge ogni singolo aspetto della vita quotidiana. Ecco che allora, per rendere appieno la dimensione di questo terrore, abbiamo deciso di puntare sulla corporeità.

Noi facciamo un teatro molto corporeo. Nella messa in scena di questo testo la scommessa è stata quella di cercare sempre di mantenere una partitura fisica, ossessiva, ripetitiva, che apparentemente non ha niente a che vedere con quello che si dice e che però dà la dimensione dell’impossibilità di scegliere. La domanda che, inespressa, vogliamo che questi corpi comunichino è: quanta possibilità di scegliere abbiamo all’interno di uno spazio così ristretto?

I personaggi sono sempre in scena, non escono mai, non c’è proprio la possibilità di uscire. È come se fossero sempre immersi in una situazione claustrofobica, non c’è reale frammentazione nel passaggio tra una scena e l’altra. Quelli che noi chiamiamo intermezzi, i momenti di cambio d’abito, sono stati concepiti inizialmente come momenti separati e poi sono sempre più diventati parte di una situazione che si caratterizza come uno spazio senza via d’uscita, in sospensione.

E per il futuro hai già in mente altri progetti? Pensi di tornare all’interpretazione?

Sì certo. Sto preparando un lavoro su Arianna e Teseo, un lavoro prevalentemente corporeo. C’è anche una parte di testo ma è più che altro agito, fisico. È incentrato sul tema delle relazioni e della solitudine. In questo spettacolo lavoreremo molto sul concetto della paura del contatto, del toccarsi. I due personaggi evitano di guardarsi, temono la relazione fisica. Il percorso, prima interiore, poi di relazione, li porterà verso la fine a un contatto. Il gioco sarà la chiave di relazione con l’altro.

Del resto quello della relazione è uno dei grandi temi del teatro e, come diceva Grotowski, “il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie, senza gli effetti di luce e suono… Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta”.

 

Informazioni sullo spettacolo teatrale:

Terrore e miseria del Terzo Reich

Regia di Michela Embriaco. Con Luca Battisti, Tania de Oliva, Carmela Guitto, Claudia Lodi, Elena Negriolli, Fatjon Shehaj.

Sabato 4 febbraio 2012. Ore 21.00.

Teatro S. Marco, via S. Bernardino 8, Trento.

Ingresso: intero € 12,00; ridotto 9,00.

Info e prenotazioni: info@multiversoteatro.org – 328 8497693.

Sito ufficiale: http://www.multiversoteatro.org/

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